by Talking Peace | 2008-11-01 12:15 pm
Haiti: non è una questione ideologica
Il terremoto a Haiti impone scelte immediate, e a medio e lungo termine che si basino in questo caso sulla memoria storica. Scelte immediate per l’immane distruzione che il terremoto ha provocato. L’aiuto e sostegno alla popolazione devono imporsi come prioritari ed obbligo dei paesi che stanno facendo a gara per inviare aiuti a costituire un coordinamento che per una volta almeno tenesse da parte diatribe ideologiche e politiche. Eppure sembra che questa ovvia constatazione non sia proprio una priorità. Su “La Repubblica” di qualche giorno fa Lucio Caracciolo nell’ articolo “Nelle braccia dell Occidente” evidenzia come la tragedia haitiana possa essere per gli Usa un rilancio nella competizione per la riconquista di un ruolo centrale nella politica internazionale. Per Caracciolo lo “slancio economico militare” mostrato in queste ore dagli USA verso Haiti si propone di raggiungere tre obiettivi: non ripetere gli errori di Bush mostrati in occasione dello tsunami del 2004 in Asia e nell’urgano Katrina in casa propria dove apparve un” immagine di una superpotenza egoista e declinante”. “Secondo: dare profilo specifico alla sua visione – finora piuttosto retorica – degli Stati Uniti come potenza capace di esprimere la propria egemonia non attraverso l’esibizione o peggio l’impiego della forza, ma raccogliendo intorno a sé ampie coalizioni internazionali. E assumendosi la responsabilità di guidarle”. “Terzo: impedire che forze nemiche o inaffidabili prendano piede a Haiti. Un classico Stato fallito, di fatto non governato da nessuno. Haiti non è la Somalia, certo. Ma i recenti corteggiamenti venezuelani al presidente Préval, sostanziati da forniture energetiche e progetti infrastrutturali, miravano a calamitare Haiti nell’Alba, l’asse antiamericano guidato da Caracas e L’Avana.” Se questi saranno gli obiettivi principali di Washintong, per gli haitiani la storia di miseria e sfruttamento secolare si ripeterà. Perché ad accrescere il disastro umano e sociale provocato dal terremoto, c’è stata in questi anni una politica che non ha tenuto conto delle esigenze della popolazione. Dopo le vicende che hanno coinvolto il governo guidato da Bernard Aristide, con il suo sequestro ed espulsione, ( vedi “Haiti prima del terremoto. Un paese dimenticato[1]”), la comunità internazionale che si è posta come garante della situazione politica interna al paese, ha imposto un modello sociale ed economico che impedisce qualsiasi possibilità di sviluppo interno. Haiti può trovare un cammino per affrontare gli immani problemi presenti nella sua società, la più povera dell’ America Latina, se il progetto di indipendenza sociale ed economica del continente latinoamericano, che tra molte contraddizioni cerca di andare avanti, si concretizzerà sempre più. Ed è su questo aspetto che si gioca la scommessa sul presente e futuro haitiano. Gli aiuti dell’ Occidente sono obbligati visto i decenni di rapina a cui il paese è stato sottoposto. Anche perché c’è chi propone ad Haiti come scrive lo stesso Caracciolo “forniture energetiche ed infrastrutturali” a prezzi inferiori a quelli di mercato e chi vede Haiti come il luogo ideale per impiantare nuove zone franche per lo sfruttamento intensivo della mano d’opera a costo zero. Questa immagine nascosta in modo strumentale, basandosi sulla giusta emozione immediata per le conseguenze del terremoto, impedisce di guardare oltre locheremo patinato dell’informazione ufficiale. . Un paese come Cuba ad esempio che ha molto da insegnare a livello mondiale, almeno sula prevenzione ed intervento in caso di disastri naturali, è stato il primo paese a prestare aiuti concreti immediati alla popolazione. Come scrive M. L. DE GUEREÑO corrispondente del gruppo editoriale spagnolo Vocento “con la maggioranza degli ospedali distrutti o inservibili, senza che l’aiuto internazionale fosse iniziato, ad offrire assistenza sanitaria ad Haiti furono i 334 medici e paramedici cubani che da 12 anni collaborano nell’isola caraibica. Il governo comunista inviò altri 30 specialisti con materiale di emergenza dopo il terremoto. A Port au Prince si trovavano 152 operatori sanitari cubani nel momento del terremoto. La loro prima reazione fu di mettere in piedi due ospedali da campagna nella loro residenza perché l’edificio dove lavoravano era crollato. Con l’apertura di due ospedali della capitale quello del Seguro Social e il Nacional, il personale medico cubano tornò a prestare servizio. Alla luce di lanterne, i chirurghi cubani realizzarono 19 interventi anche se altre 26 persone di cui 9 bambini a causa delle terribili ferite sono morti.”
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