Messico: Il narco, uno Stato parallelo – Jorge Camill

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Disperso, e apparentemente disorganizzato, il narco è la prima forza che sfida in modo decisivo lo Stato messicano. Opera visibilmente in tutto il territorio nazionale ed espande i suoi mercati all’ estero con tecnologia ed un impressionante struttura finanziaria; importa armi di grosso calibro per combattere apertamene le forze armate, e corrompe con impunità le autorità federali, statali e municipali; “riscuote imposte, impone leggi e dispone di forza pubblica”, ha riconosciuto recentemente Felipe Calderon (presidente messicano).

Nonostante questi presupposti, il capo di stato insiste nel concentrarsi unicamente in una delle attività illegali: il traffico di droga. Nessuno nel governo – salvo alcuni generali in seno alle forza armate – sembra rendersi conto che il tema ha smesso di essere da molto tempo un problema di arresti, scontri a fuoco, sequestri di droga ed estradizioni. Oggi i problemi sono altri: il ritorno dell’esercito nelle caserme, una politica di sicurezza nazionale che dia sicurezza legale agli alti gradi; depenalizzazione delle droghe, trattamento dei tossicodipendenti e la possibile (desiderabile?) negoziazione con i  cartelli della droga. Il narco ha già superato la tappa iniziale e sta convertendo i suoi obiettivi in un problema di sopravvivenza nazionale. Continua ad esistere lo stato messicano? Siamo uno stato fallito?

Con una idea di protagonismo ed irriflessiva per “democratizzare” senza aiuto di nessuno il sistema politico nazionale, Vincente Fox smantellò la presidenza monolitica dello stato ed allo stesso tempo permise che fiorissero incontrollati i feudi statali che stiamo soffrendo. Senza supervisione presidenziale i governatori divennero padroni assoluti delle loro giurisdizioni, signori di forca e coltello con orecchie disposte ad ascoltare le tentatrici offerte del narcotraffico. D’altra parte, la quantità di organizzazioni criminali che esistono in Messico ed il crescente numero di Stati dove operano, ci obbliga a concludere che abbiamo un governo corrotto fino al midollo (nel cui caso la presenza del narco risulterebbe un male minore) o che in pochi anni tutto il Messico si è convertito in tossicodipendente, cosa che dista molto dalla realtà. Non è nemmeno certo che l’incremento sempre maggiore delle aree di operazione dei cartelli significhi che il paese è caduto irrimediabilmente in una voragine di furti, sequestri, estorsioni, pirateria ed altri illeciti attribuiti al crimine organizzato.

Il narco si prepara. Armato fino a denti ed appoggiato da ex militari, consulenti legali e finanziari, conoscenza dei mercati e con decine di milioni di dollari che entrano quotidianamente nelle sue casse dall’cielo, terra e mare, i capos sembrano preparati a dare la battaglia finale. Quanto successo fino ad ora sono scaramucce. Misurano il calibro delle armi, la strategia, la capacità di organizzazione e la determinazione a combattere delle forze armate. Infiltrano tutti i livelli militari, giudiziari e di governo, e si dispongono ad installare, se non l’hanno già fatto, uno stato dentro lo Stato messicano. Una società parallela!

Rafael Rodriguez Castañeda, diretto di Proceso, e coordinatore dei magnifici saggi titolati “El Mexico narco” (che presentano una visione apocalittica del narcotraffico), è convinto che “come il sangue che scorre su un piano inclinato”, il narco ha invaso il territorio nazionale e che lo specchio del Messico di oggi “riflette il narco assieme al resto delle strutture sociali del paese”.

Cosa stiamo vivendo? Un guerra civle? In questo coincidono esperti e strateghi militari; una guerra civile nella quale si stanno disputando somme enormi di denaro e territori. Non esistono, come in altre guerre civili, differenze ideologiche, però sono in gioco vasti territori della geografia nazionale, rotte di importazione ed esportazione di droghe, armi denaro; campi di atterraggio clandestini, ed alla fine il pomo della discordia: il potere politico a tutti livelli di governo. Un altra caratteristica della guerra civile, nella quale coincidono gli esperti, è il numero dei morti (generalmente mille all’anno. In questo contesto il governo ha riconosciuto recentemente 7500 vittime per anno negli ultimi sei anni). In “El Mexico narco” i giornalisti di Processo presentano un paese incurabile. Un paese, afferma Rodriguez Castañeda, al quale gli uomini del potere politico ed economico – con i loro abusi senza limite – hanno contribuito a degradare, “perché la dimensione del narcotraffico in Messico equivale alla magnitudine della corruzione”. Nel passato, la cospirazione tra questi uomini del potere politico ed economico si traduceva unicamente in succulenti contratti di costruzione e redditizie forniture di beni e servizi. Questo convertì il governo in una fonte inesauribile di buoni affari, allontanandolo dalle sue funzioni naturali di amministrazione ed distribuzione  della giustizia.

Oggi il narco è andato più in là; ha creato uno Stato parallelo che coesiste incontenibile rispetto alle altre strutture sociali: la politica, gli affari, le finanze e l’esercizio delle professioni liberali. E’arrivato il momento di consegnare la piazza, o di analizzare il tema con una prospettiva differente.

Fonte: http://www.jornada.unam.mx/2010/04/16/index.php?section=opinion&article=018a1pol

 


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VENEZIA, 11-12 FEBBRAIO 2011. PROCESSI DEMOCRATICI DI SOLUZIONE DEI CONFLITTI.ESPERIENZE DI DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA.

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L’11 e 12 febbraio 2011 a Venezia (SALA S. LEONARDO,  Rio Terà S. Leonardo, Cannaregio 1584) si svolgerà la seconda conferenza internazionale “Processi di Pace e Risoluzione dei Conflitti” promossa dal Centro Pace del Comune di Venezia. Questa conferenza si svilupperà su due assi: da una parte l’analisi dei processi (in atto o in fieri, e comunque allo stato unilaterali) di ricerca di una soluzione pacifica, basata sul dialogo, del movimento kurdo e della sinistra abertzale basca a un anno dalla prima conferenza veneziana, svoltasi nel novembre 2009. In quell’occasione la sinistra indipendentista basca (le organizzazioni di quest’area politica sono illegalizzate nello stato spagnolo dal 2002), il DTP kurdo (illegalizzato dalla Corte Costituzionale turca poche settimane dopo la conferenza), e il Sinn Fein irlandese hanno discusso e proposto percorsi di soluzione a conflitti che storicamente hanno caratterizzato, e caratterizzano, le vicende politiche  delle loro comunità nazionali  di riferimento e dei quali questi movimenti sono parte in causa. In quella conferenza la sinistra indipendentista basca ha reso pubblica la decisione politica (Declaracion de Venecia y Alsasua) concretizzatasi poi nel documento Zutik Euskal Herria! (In piedi Paese basco!). In questo documento il movimento politico basco ha scelto una strategia che porti a un processo democratico senza violenza né ingerenze per una soluzione del conflitto politico basco spagnolo. La soluzione del conflitto necessita ancora di un lungo cammino da percorrere, come dimostra il susseguirsi di eventi di questi ultimi mesi (comunicati di ETA che avallano la posizione della sinistra indipendentista, la dichiarazione di cessate il fuoco “permanente, generale e verificabile dalla comunità internazionale”, convergenza di organizzazioni politiche, sindacali e sociali basche a favore del processo democratico, arresti di dirigenti politici che avevano promosso questa iniziativa politica, iniziative legislative del governo spagnolo volte a rafforzare l’illegalizzazione della sinistra indipendentista, rifiuto da parte governativa a ogni dialogo. Il DTP kurdo ha presentato a Venezia le basi di quella che nel 2010 è venuta definendosi come ‘autonomia democratica’. Il cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) è stato esteso per consentire la creazione di condizioni favorevoli a un dialogo, ma l’esercito turco sta continuando le operazioni militari, anche se il governo ha ammesso che ci sono contatti con il leader kurdo incarcerato, Ocalan.

Il secondo asse sul quale si svilupperà questa seconda conferenza è invece quello delle pratiche. Nonostante i conflitti, i soggetti politici che rivendicano riconoscimento hanno accompagnato all’azione contestativa  pratiche di costruzione del comune. Sono esperienze limitate si dirà, ed è certo vero, visto che cercano di svilupparsi in contesto in cui la situazione politica attuale nega loro la possibilità di essere articolate. Però danno la misura del rilevante contributo che potrebbero offrire quando il processo democratico riuscirà a porre le basi di una dialettica non violenta. Essendo poi la problematica inserita nella questione identitaria, essa assume un interesse particolare vista l’attualità del dibattito sull’incontro/scontro tra culture. L’ispirazione ideologica di questi movimenti ha imposto storicamente un approccio articolato e approfondito del senso di appartenenza a una comunità. Ma ha anche delineato un approccio critico alla forma ‘stato’ immaginando una ipotesi di organizzazione sociale che sviluppi forme più partecipative e decentrate non solo internamente ma anche in rapporto con altre comunità.
Questi movimenti pur essendo protagonisti di conflitti laceranti hanno saputo delineare una proposta politica inclusiva, che riconosce la pluralità del mondo su un piano di parità. Esperienze di partecipazione che hanno anche altre espressioni in contesti dove non esiste un conflitto identitario ma che hanno come elemento comune il riconoscimento della diversità. Trovare un nesso tra cultura autoctona, partecipazione democratica nel determinare le scelte economiche e sociali e rapporto con altre culture, partendo dall’esperienza municipale è un percorso sul quale costruire percorsi di pace e giustizia. 

 

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