Essere europeo è immorale – Koldo Izaguirre

by Talking Peace | 6th May 2010 2:05 pm

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Agli inizi del secolo XX, gli artisti occidentali scoprirono l’arte africana: tutti i grandi artisti elogiavano la ricchezza che Parigi rubava alle sue colonie. L’arte africana ha avuto una grande importanza nella evoluzione della nostra pittura e della nostra scultura, e i movimenti che

non volevano languire nella decadenza si nutrirono dell’arte negra: ciò che noi ancora oggi chiamiamo primitivo servì da base per la nostra modernità. I primitivi sono imprescindibili. Sono imprescindibili, si, però in quanto primitivi. Ogni certo tempo, necessitiamo trasfusioni d’ingenuità. La cultura non avanza se non attraverso il con- tatto e dell’influenza, alla base della cultura c’è l’inter-culturalità. Necessitiamo del primitivo per rimuovere le docili acque della nostra competente monotonia artistica intellettuale. Però, e loro? Forse loro necessitano di altri, cioè, di noi, qualcosa di distinto da ciò che noi speriamo da loro. Le loro necessità possono essere molto differenti, completamente opposte alle nostre. Noi, il mondo sviluppato, abbiamo assunto che siamo capaci di assimilare l’altrui senza perdere niente della nostra personalità. Però perché il negro, l’indio, smette di essere negro o indio quando entra nelle categorie che gli abbiamo assegnato previamente? Il negro, l’indio, da intendersi il terzo mondo in generale, ci interessa come produttore e magazziniere di materia prima, non come un’insieme comparabile, molto meno come cultura che anche necessita trasfusioni. Noi necessitiamo evolvere costantemente; loro devono identificarsi nella no-evoluzione, a questo gli abbiamo condannati.

Non cerco di fare del terzomondismo di bassa lega, cerco di mostrare – dal privilegiato status di scrittore in una lingua ignorata, disprezzata, minorizzata, demonizzata, perseguita -, uno degli strumenti del neocolonialismo culturale. Perché noi, i baschi, siamo allo stesso tempo terzo mondo e società consumistica, rito ance- strale e nube di smog. Fino al punto che, noi, che crediamo essere baschi per aver saputo in- serirci nella storia ed evolvere rinnovandoci, siamo abitualmente considerati come primitivi. Nell’aprile di questo anno, un noto giornalista e scrittore spagnolo, dai microfoni di una delle radio più popolari dello stato, e in un programma di massimo ascolto, dichiarava magistralmente:

“Il basco è una lingua così primitiva che disconosce, per esempio, ciò che sono universali. Vale a dire, l’idea di albero, che è una idea che esiste nelle lingue avanzate, non come il basco, nel basco non esiste. Il basco come lingua molto primitiva ha i faggi, i pini, i pioppi…però non ha l’albero. (…) In questo senso è un a lingua nella quale tuttavia lo sviluppo della mente umana non si rende conto che c’è l’universale. (…) Non diciamo di non studiare il basco, pensiamo che bisogna studiarlo come altre lingue come il cherokee, l’apache o il georgiano…”

Questa affermazione è condivisa senza dubbio alcuno da milioni di spagnoli vittime del costante bombardamento di un discorso identitario, escludente e monolingue. Supponiamo che in euskara non esista la parola zuhaitz e che noi baschi ci vediamo obbligati a dire arbola quando vogliamo dare categoria universale ai faggi, pini e pioppi. Non sarebbe questa una dimostrazione del fatto che l’euskara è una lingua che avanza, visto che, rilevando le proprie carenze, le sopperisce prendendo prestiti, come lo fanno le lingue maggiorizza- te , per esprime gli universali? Ebbene no, perché l’euskara è condannata ad essere materia di studio (non di apprendimento, la distinzione ha la sua importanza), come le lingue indio americane che forse alcuni anziani parlano ancora oggi in una sperduta riserva. Siamo una curiosità turistica, un esotismo, un pezzo da museo. Vale a dire, ci si condanna paternamente al primitivismo: non possiamo evolvere, non possiamo prendere prestiti, il casigliano ha diritto agli inglesismi, l’euskara no.

Siamo terzo mondo linguistico. In questa epoca nella quale essere moderno passa attraverso il meticciato, la mia lingua deve rimanere in una categoria assegnata da una altra lingua, senza diritto alla evoluzione: l’euskara come una no-lingua. La interculturalità, base di tutta la cultura, ha una unica direzione, è diritto esclusivo dei grandi, che praticano, da secoli, il vampirismo culturale.

Un masai impugnando una macchina fotografica è un anacronismo, un massai deve impugnare una lancia. Il documentario lo faremo noi.Chi abbia visitato qualche volta il Paese basco avrà potuto comprovare che il suo strumento musicale per eccellenza è una piccola fisarmo- nica diatonica, la trikitixa,con il cui accompagnamento si cantano tanto canzoni popolari di trecento anni fa come poemi colti di due giorni fa. Però è cosa risaputa che la fisarmonica è uno strumento molto recente, della metà del XIX secolo. Ciò che oggi si può considerare come strumento nazionale basco non proviene dalle nostre caverne, bensì venne portato dagli specialisti piemontesi che vennero a costruire le prime linee ferroviarie ed a perforare i nostri primi tunnel, nell’ultimo terzo del secolo diciannovesimo. Il popolo semplice, il lavoratore analfabeta, il lavoratore che solo parlava euskara, inter-culturalizzato tra piemontesi, fece proprio lo strumento senza fare caso alla condanna dei preti (“mantice dell’inferno”, lo chiamavano) e dei politici nazionalisti (che lo rifiutavano perché straniero)). Cosi è una delle nostre radici etniche, una delle nostre identità culturale: piemontese. Essere basco, modernamente, è stata una lotta costante per l’universalismo. Però adesso non abbiamo motivi per lottare, adesso siamo europei. Una nuova convenienza ci procura questa identità continentale.Fuori è la barbarie. Fuori è un luogo nel quale possiamo andare in vacanza per conoscere, fame, bombe e maremoti. Fuori è un luogo nel quale possiamo saziare la nostra necessità di “fare del bene” (infantilizados) medici o pompieri volontari.

Oggi è mal visto non essere europeo, ovvero, non dichiararsi europeo. Viviamo nell’epoca del totalitarismo europeista. Viviamo in uno statuto di autonomia continentale. Ci hanno de identificato dal mondo. Il Mediterraneo è il nuovo Bidasoa, un nuovo Rhin, un mare-abisso, un maremuraglia, non un mare-ponte. E non ci rendiamo conto che una cittadinanza umanamente ammissibile solo può essere una cittadinanza globale (no globalizzata) e universale (no modellata). O è che per caso pensiamo che anche se forse non diverrà una grande re- pubblica sociale, Europa può essere un ghetto dello sviluppo? Forse è questo che nel fondo vogliamo credere (sempre si potrà frugare tra gli avanzi del festino della Padronato), dobbia- mo essere coscienti che questo conformismo vive su una cinica cecità. Il nostro sarebbe un internazionalismo esclusivo (fuori non ci sono cittadini, solo tribù) ed escludente, sotto un manto di solidarietà caritativa (umanitarismo invece di umanismo)

Stiamo assistendo, scoraggiati, a una (nuova) costruzione simbolica coloniale, gli europeisti stanno formando una identità chiusa (noi ed il resto del mondo). Il vecchio centralismo culturale europeo ha ora più copertura ideologica che mai. Essere europeo è immorale. I baschi, noi, vogliamo dare una passo (con gli stivali di sette mila leghe), saltando al di sopra di tutti i Mediterranei di questa (nostra) meschina, soddisfatta, cieca Europa.Il nostro campo di azione è il mondo I baschi, nella nostra lotta per la cultura e per i diritti linguistici, contribuiamo a formare una coscienza più ampia, meno sciovinista. Come minorizzati, siamo profondamente coscienti che il nostro futuro passa attraverso una grande alleanza anti totalitaria. Non vogliamo essere europei disposti a soccorrere i continenti disgraziati, vogliamo essere cittadini di tutti i continenti. La cultura è inter culturale, inter continentale. Noi vuole dire noi e gli altri. Nel nostro immaginario Palestina occupa un posto importante, come tante altre coscienze europee. Però anche il popolo mapuche. Ed il kanako. E il berbero, e il georgiano, con la cui lingua sono soliti imparentarci. Profondamente minorizzati e coscienti, siamo pieni di referenze e solidarietà che non ci stanno in Europa. I centri sono molteplici. La nostra identità è un arcipelago di centralità, una rete di radici differenti

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