by Talking Peace | 2010-08-09 4:12 pm
Mehmet e sua moglie Gulistan si guardano costantemente. Il dolore è insopportabile. Ed è un dolore che pervade la stanza. “E’ stata l’ultima volta che abbiamo visto di lui”, dice Gulistan con un sospiro. “Poi per un periodo – continua Mehmet – non abbiamo avuto alcuna notizia di lui. Ma le notizie indirette ci dicevano che stava bene. Sapevamo che non era in Turchia. Probabilmente è stato in Iran, in Iraq. Sapevamo che ogni giorno sarebbe potuta arrivare la notizia che più temevamo. Ogni volta che sentivano parlare di scontri nostri i nostri cuori bruciavano. E’ come vivere costantemente con un pesante fardello nel cuore”.
E poi quel giorno è venuto. Mehmet guarda nervosamente la moglie. Questa è la parte più difficile della storia da raccontare. Ma lo fa con voce tranquilla, chiaramente rivive ogni secondo di quei giorni ogni volta che ripete questo racconto. E con esso il dolore. Gli occhi di questo padre sono asciutti ora, ma il suo cuore è ancora colmo di angoscia.
“Quando mio figlio ha perso la vita sono andato a Trabzon per identificarlo. Sai Trabzon, sul Mar Nero, è un luogo fascista. Ce l’hanno con noi kurdi . Mi hanno fatto vedere una decina di foto. La prima era di un giovane molto minuto. Ho detto no, non è lui. Poi mi hanno fatto vedere un’altra immagine. Era un giovane uomo ma non sono riuscito a riconoscere il suo volto, tanto era sfigurato. Poi l’ho riconosciuto. C’era sangue sul suo volto nella foto, i suoi capelli però erano stati accuratamente pettinati e lui aveva un’espressione vagamente sorridente. Ho detto che era mio figlio. Poi sono andato al Consiglio di Medicina Legale (ATK) dell’obitorio per identificare il cadavere. Mi hanno portato il corpo. Il cranio era stato distrutto e bruciato. Il suo corpo era completamente nero. Io ho detto che non ero in grado di identificarlo. Ho parlato con il procuratore che aveva eseguito l’autopsia. Aveva circa la stessa età di mio figlio, è stato molto gentile con me. Era molto rispettoso. Mi ha mostrato le immagini. Non c’erano ecchimosi sul suo corpo in quelle immagini. Era morto e il suo corpo in quelle foto era intatto. E’ morto in uno scontro. Ma cosa gli hanno fatto dopo? non so se hanno carbonizzato il suo corpo con la benzina, prodotti chimici o qualche tipo di acido. Neanche a un animale si riserverebbe un simile trattamento. Quando ho chiesto al pubblico ministero giovane che cosa gli avevano fatto, non ha risposto. Si è stretto nelle spalle, come a dire, non posso parlare”.
Ma Mehmet non può accettare il silenzio. Lui e sua moglie vogliono parole. Vogliono sapere perché loro figlio è stato torturato e mutilato in quel modo orrendo. Si chiedono come sia possibile per l’Europa guardare e restare in silenzio di fronte a questa brutalità. “I giornalisti – dice Mehmet – dovrebbero parlare. Dovrebbero fare il loro lavoro e denunciare ciò che sta succedendo in questo paese. Perché ogni giorno su queste montagne l’esercito turco usa prodotti chimici contro i nostri figli e figlie. E questo non è accettabile. Non è possibile che la comunità internazionale non abbia nulla da dire su questo”.
Silenzio. Gulistan combatte le lacrime. Mehmet alza la testa. “Mio figlio non è andato in montagna perché gli avevano fatto il lavaggio del cervello, perché amava le armi o era uno sciocco. Questo nostro popolo è un popolo fiero. Il popolo curdo ha sofferto per secoli, ma ha saputo tenere alta la testa. E combattuto per la sua dignità e libertà. Mio padre e suo padre e suo padre prima di lui hanno combattuto per la libertà del nostro popolo. E oggi questa lotta va avanti. Per la giustizia”.
Di nuovo silenzio. Gulistan guarda Mehmet e le sue figlie ancora una volta. “La mia vita è finita quando mio figlio è morto. Ma vado avanti. Devo andare avanti”. Uno sguardo di nuovo alla foto di Özgür, al suo bel viso. E’ per tutti gli Özgür di questa guerra che Mehmet e Gulistan parlano.
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