LE RIVOLTE NEL MONDO ARABO, UN RICHIAMO ALLA REALTA’

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Perché adesso le rivolte nel mondo arabo preoccupano la nostra classe politica ed imprenditoriale dirigente? Ce lo dice l’imprenditore italiano di turno  “scosso” dall’ rivolta tunisina: “Quello che non è stato distrutto è stato incendiato: un danno enorme. Riuscivamo a essere competitivi sul mercato mondiale grazie ai bassi costi della manodopera tunisina. Ora è tutto finito». “Bassi costi della mano d’opera” questa  è la priorità. Questa è la sintesi dello sviluppo di duecento anni “della scienza dell’economia”. Nascosta da frasi di circostanza,, da pelose dichiarazioni di principi e diritti democratici non per la mano d’opera, non è tempo per i “buonismi”, ma per i propri connazionali “imprenditori”  che devono “stare sul mercato” Cosi l’ambasciata italiana in Egitto nel 2006 “Il costo della manodopera in Egitto è notevolmente più basso rispetto all’Italia ed è compreso tra i 100 e i 300 $ al mese. Non esiste un minimo salariale stabilito dalla legge, essendo il trattamento economico dei lavoratori legato alla contrattazione individuale con il datore di lavoro. Gli stipendi vengono pagati generalmente in valuta locale anche dalle ditte straniere.” Insomma il paese di bengodi per la libera impresa perché “l’Egitto è un Paese che ha una stabilità politica di fondo, garantita da un ordinamento costituzionale ben funzionante e dall’autorevolezza del Presidente in carica.”. E adesso che i due fedeli alleati dell’ Occidente, Mubarak e Ben Ali, se ne sono andati cacciati a furor di popolo? “Manifestiamo preoccupazione per gli interessi dei nostri paesi” e per le “conseguenze su una possibile ondata migratoria da quei paesi”, queste sono le priorità, perché democrazia ma più semplicemente reale sovranità popolare in quei paesi è uno spauracchio poiché significa meno possibilità di “accumulazione di capitale” di “valore aggiunto”.

Perché tu puoi essere, o far credere di essere, il rivoluzionario più convinto e “acerrimo nemico dell’occidente”, come Muammar Gheddafi degli anni 70 e 80, per poi passare, quando “il pretesto rivoluzionario” e gli alti “ideali della nazione araba” no garantiscono più il proprio potere, ad essere uno statista con una “legittimità internazionale riconosciuta”. E cosi le immesse ricchezze del sottosuolo libico permetteranno a Gheddafi ed al suo entourage oligarchico di entrare nell’economia italiana, europea ma anche dell’odiato ex “nemico imperialista”, gli USA,  che ben felice accoglie le offerte del satrapo magrebino: “l’impresa statunitense General Dynamic firmò un contratto di 165 milioni di dollari per armare la 2. Brigata di elite delle Forze Armate Libiche. Halliburton, Shell, Raytheon, Dow Chemical e Chevron integrano l’Associazione commerciale Stati Uniti –Libia e nel 2009 comparve la notizia che forze britanniche stavano addestrando forze speciali libiche in tecniche antiterroriste”. Addestramenti che in qualche modo hanno dato i loro frutti con la repressione selvaggia delle proteste di queste ore. E Europa e USA solo dopo che i fatti evidenziano la  disposizione di Gadaffi a massacrare  i suoi oppositori e a scatenare una guerra civile pur di garantire il suo oligarchico potere, fanno le prime timide reprimende. Timide, ovviamente, perché le preoccupazioni sono ancora sugli interessi economici e le possibili conseguenze sull’immigrazione che fanno dire al “Ministro Italiano Umberto Bossi” “li spediremo in Francia e Germania”.  Che cosa si possono aspettare le popolazioni arabe da statisti di questa di questa statura? Se in questi paesi la giustizia viene richiesta, se diritti negati si voglio instaurare, gli ultimi che possono dire e fare qualcosa sono proprio Europa e Occidente. Come scrive il quotidiano basco Gara,  al riferirsi al boss libico: “ha ragione a mostrarsi poco preoccupato per una Europa che fino a ieri lo considerava intoccabile e indispensabile e che non ha niente da offrire salvo fare il teatro del grottesco. Però la situazione è arrivata a un punto di non ritorno sul terreno. Al Gadhafi ha perso l’ultimo suo rifugio e baluardo: la paura popolo libico”.

Questa perdita della paura deve ricollocare nell’immaginario europeo, almeno in quello meno eurocentrico,  le popolazioni arabe e più in generale del Medio Oriente. Smentire quei luoghi comuni riduttivi che fanno aprire al quotidiano spagnolo El Pais, gli articoli sulle rivolte nel mondo arabo e medio orientale  con l’occhiello “Ondata di cambiamenti nel mondo islamico”. Togliersi quel brutto vizio, anche di alcuni  mezzi d’informazione alternativi nostrani, di ridurre la riuscita delle ribellioni per la voglia di cambiamenti profondi ai “mezzi di informazione globale, alle reti sociali”, imposti come lo spazio per eccellenza della relazione sociale. Come scrive Amal Ramsis ,cineasta egiziana, “parlare della Rivoluzione di Facebook è portare disprezzo alla nostra rivoluzione… sarebbe assurdo pensare che qualcuno gli sia saltato in mente di convocare una rivoluzione il 25 gennaio. Tu puoi convocare una manifestazione ma non una rivoluzione perché questa implica una predisposizione della gente…non possiamo disprezzare tutta questa gente che non può nemmeno avere accesso a Internet e a queste reti sociali e che ha partecipato alla rivoluzione.”

Ascoltare invece di collocare, apprendere per rafforzare la visione della diversità, uscire dagli schemi, che impediscono di guardare più in là dell’emozione del momento, che affondano nell’omertà e nel silenzio tombale dei mass media occidentali ,per esempio,  uno sterminio ad opera di paramilitari ed esercito colombiani, diluito negli ultimi venti anni, di 250 mila persone, nel paese del Plan Colomba, della Seguridad Democratica, di Ingrid Betancour, sequestrata dai guerriglieri delle FARC, che nelle onorificenze concesse dalle autorità italiane, rimane muta sul genocidio praticato dai suoi “liberatori”.  Una omertà sulla eterna questione palestinese, una nostra coscienza critica, che ci interroga giorno dopo giorno, sulla meschina ipocrisia di uno “stato concesso ad un popolo perseguitato dalla Europa”, sulla terra di un altro popolo che europeo non è. Un silenzio complice sulle fosse comuni in Turchia, dove sono stati interrati centinaia di kurdi che avevano la colpa di essere kurdi. E la lista continua.

Osannato, da una informazione retorica, insabbiatrice, che stabilisce più valore informativo alla vita di una famiglia reale, nel XXI secolo, o delle gesta extramatrimoniali di una qualsiasi presidente sia esso americano che nostrano, che non sulle origini delle ricchezze opulente e delle maggioritarie miserie umilianti, questo “sistema neoliberale globalizzato” ha vissuto, in questi anni di un presunto consenso, sulla creazione dello spauracchio, del “nemico”: “Quando le più grandi potenze economiche del mondo, che sono anche i maggiori produttori di tecnologia di guerra, dicono che necessitano combattere il nemico in un quadro di permanente guerra preventiva, credetegli, perché dicono la verità. Il nemico lo necessitano più di ogni altra cosa e di nessun altro”. Ma questo “nemico necessario” si sta sempre più esaurendo  nella sua funzione catalizzatrice dell’opinione pubblica, a causa della realtà di un mondo che, nella sua organizzazione gerarchica, nella suo ostinato rifiuto di una concezione della diversità nell’ uguaglianza, svela, sempre più, che è molto lontano da essere  “il migliore di quelli possibili”.

 


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