by Talking Peace | 2011-04-13 7:56 am
E allora cos’è l’occidente?
Riprendo Dyson: “Le ribellioni contro la cultura localmente dominante”. In tutto questo mosaico credo sia questo l’elemento comune per definire “occidente”. Uno spirito di ribellione le cui origini ci deve importare relativamente poco. Ci interessano di più i grandi movimenti di trasformazione. Penso all’Europa della Riforma protestante o a quella ribellione culturale che fu l’Umanesimo. Ho in mente poi quella grande fucina di idee ed esperimenti che è stato l’Illuminismo, da Voltaire a Kant, tanto per citare alcuni. Se guardiamo all’ America, questa cultura di ribellione contro le istituzioni dominanti è ciò che guida i Padri Fondatori da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson. Né meno importanti sono le vicende del Messico, che conosce una profonda rivoluzione agli inizi del Novecento, o di altri Paesi latino-americani come il Brasile – il quale per altro riuscì ad abolire la schiavitù in modo pacifico e non con una sanguinosa Guerra Civile come fu per gli Stati Uniti. Sono esperienze molto diverse tra loro ma quello “spirito di ribellione” di cui parla Dyson, con riferimento alla scienza, lo ritroviamo nella politica e nella storia. Tale spirito ha prodotto grandi esempi a livello di arti figurative, o letterario o anche nella musica: penso allo spirito gioioso che c’è in tutta la musica brasiliana e che è stato uno strumento di resistenza all‘epoca della dittatura militare. Quindi una capacità di tenere insieme un mosaico di visioni parziali grazie a un’insofferenza contro i pregiudizi stabiliti – ed è questo un elemento unitario che troverei per l’occidente; ma se le cose stanno così, non abbiamo bisogno di un’idea statica di Occidente. Anzi l’Occidente non deve ricorrere a custodi dall’alto, tipo il Papa o il Presidente degli Stai Uniti, ecc.
Però questa “cultura di ribellione”, come tu la definisci, poi divenuta potere si trasforma spesso in strumento di negazione della diversità utilizzando la parola “pluralismo” in modo strumentale ma nella sostanza negandone il senso profondo.
Sostenere questi principi era già costoso entro la stessa comunità scientifica. I grandi innovatori non sono ben visti dai colleghi. Ho in mente le reazioni che ci sono state in Germania contro Einstein quello che ha rifondato la fisica con la teoria dei quanti di luce (i fotoni) e la relatività in un solo anno – nel 1905 – per non dire della meccanica statistica classica. Einstein era visto talvolta come un grande perturbatore anche da grandi suoi colleghi di prestigio, come il fisico Philipp Lenard di cui da giovane Einstein aveva sentito le lezioni. Lenard diceva che Einstein era un pericoloso sovversivo! Poi, con l’avvento del nazismo non furono pochi a condannare come “giudaica” la fisica di Einstein. E nella Russia sovietica il potere ha guardato con sospetto Lev Landau, salvo poi utilizzarlo quando divenne necessario riarmare adeguatamente l’URSS. E Darwin veniva celebrato come un grande scienziato nell’età vittoriana, ma fu anche duramente attaccato in vita dalla Chiesa di Stato d’Inghilterra. Per non dire del caso di Galileo Galilei, che finì davanti al tribunale dell’Inquisizione romana. Già nel mondo scientifico i pensatori che praticano quest’arte della ribellione sono molto scomodi. Immaginiamoci in contesti come l’arte e la politica, che si ritengono molto più immediatamente fruibili della scienza. E poi c’è un altro aspetto, che non è solo del cosiddetto Occidente, ma è più generalmente umano. Ci sono pensatori che sono magari grandi rivoluzionari all’inizio, ma poi fanno marcia indietro. Ricorrono or ora i cinquecento anni dalla nascita di Giovanni Calvino, il grande riformatore, forse il più abile nel conferire una veste moderna al cristianesimo, cioè all’altezza delle sfide economiche e sociali del tempo. Calvino inizia come un laico umanista che difende la libertà dell’interprete rispetto al testo biblico; poi però, quando deve rifondare la sua Chiesa a Ginevra, usa spietatamente i metodi della repressione. È storia assai nota: la giovane guardia di oggi può essere la forza più repressiva domani.
Rimanendo in Europa pur non essendo una prerogativa europea la negazione delle diversità…
Sì, rimaniamo in Europa, altrimenti dovremmo fare i conti con la Cina popolare nei confronti delle minoranze riottose. Molti parlano del Tibet, anche per la risonanza nei media del Dalai Lama. Ma si dovrebbe guardare anche alla situazione degli uiguri per capire come la Cina livelli la diversità ricorrendo a un massiccio dislocamento di cinesi di etnia Han (quella dominante sul territorio variegato della Repubblica Popolare e per lo più fedele al regime) sul territorio del Turkestan Orientale (per i cinesi Xingjiang) e alla distruzione degli insediamenti urbani uiguri. Il problema è che la diversità dà fastidio ed è considerata un pericolo tanto più è radicale. Ed è sempre stato così. Talvolta viene tollerata, ma quando supera una certa soglia va repressa. Prendiamo il caso della repressione dei cristiani nell’Impero Romano. Non è che l’impero romano fosse particolarmente intollerante; anzi era abbastanza abituato ad accettare ciascuno con il proprio Dio. ma con i cristiani questa formula non funzionò. Erano troppo diversi, i cristiani, per essere tollerati. La diversità da fastidio: questa dialettica tragica e drammatica la conosce anche il grande esperimento dell’Islam. Anch’esso ha grandi componenti di tolleranza, però l’intolleranza non dell’Islam in quanto tale, ma di certe traduzioni dell’ Islam in politica sono sotto gli occhi di tutti.
In molte costituzioni europee è contemplata l’esistenza di diverse nazionalità. Però ci sono due aspetti significativi: primo, c’è sempre una nazionalità dominate che ingloberebbe tutte le altre; secondo, questo riconoscimento diventa di fatto una “concessione”. Tale presupposto significa di fatto dare un valore alle diverse nazionalità. E quindi la costruzione di una società pluralistica, come si afferma, in realtà non è tale. si produce una società gerarchicamente costituita su soggetti che hanno di fatto meno diritti.
Pensiamo alla politica delle nazionalità fatta nella prima Unione Sovietica ai tempi di Lenin, quando Stalin si occupava della questione delle nazionalità. Sulla carta funzionava tutto benissimo; poi, quando si consolidò lo stato in epoca stalinista, si constata il paradosso che il dittatore Stalin, che è georgiano, favorisce potentemente la comunità russa rispetto altre. E negli Stati Uniti? Gli USA nascono come struttura democratica non nazionale; tanto è vero che ai tempi della guerra d’indipendenza dall’ Inghilterra alcuni padri fondatori erano propensi a non prendere l’inglese come lingua di base. Ma poi questa tendenza è stata messa in minoranza. Gli USA sono da questa punto di vista un paese aperto, che accetta storicamente forti immigrazioni; e oggi è un paese fortemente multinazionale e multireligioso. Ma hanno anche un passato di sangue, basti citare gli africani e i nativi americani, gli uni portati a forza negli States, gli altri affrontati con guerre di sterminio. Per giungere a una almeno formale parità dei diritti ci è voluta una guerra civile e non solo. Per l’emancipazione dei neri e l’abbattimento della discriminazione razziale ci è voluto il sacrificio delle vite di due delle più importanti personalità politiche ed intellettuali statunitensi della seconda metà del Novecento, Martin Luther King e Malcom X. Senza di loro, niente Obama; e niente Obama anche senza il precedente di John Fitzgerald Kennedy, che era un cattolico irlandese. È così che è stata rotta l’egemonia WASP (da White Anglosaxon Protestant). Del resto una organizzazione statuale che riesca mettere sullo stesso piano comunità nazionali di diversa origine religiosa incontra un compito non facile. Ma il fatto che questo sia un programma difficile non costituisce motivo per non provarci. Talvolta sono tentato di rivalutare la “noiosa tranquilla Svizzera”, dove hanno smesso dal 1824 di spararsi tra cattolici e protestanti. Ci sono cristiani di varie tendenze; e poi ci sono quattro lingue, romancio, tedesco, francese e italiano – e pur constatando che la maggioranza è di lingua tedesca, ciò non blocca vitali differenze. Comunque, credo che la diversità sia una grande sfida e non ritengo che si possa affrontate con le sole buone intenzioni. Dobbiamo oggi capire tutti quello che aveva ben compreso uno dei più grandi filosofi della modernità politica, Spinoza: gli esseri umani da soli sono deboli; quando tu sei debole hai bisogno dell’aiuto dell’altro. È allora un buon affare trattare con il prossimo e cominciare a collaborare. Spinoza aveva in mente l’esperienza della sua Amsterdam: protestanti di varie tendenze e cattolici romani avevano smesso di combattersi reciprocamente, avevano fatto fronte comune contro i vari invasori, avevano cercato misure per migliorare i commerci e avere istituzioni più snelle. La tolleranza, il rispetto della varie posizioni, usare positivamente la diversità come una risorsa e non come una condanna è secondo me è qualcosa che s’impara con le dure lezioni della storia. Pensiamo all’Inghilterra del Seicento, cattolici esclusi, e l’Olanda, cattolici inclusi. In entrambi i Paesi si era constatato il disastro della Germania con i conflitti di religione (la Guerra dei Trent’anni in particolare): la tolleranza è anche un modo per evitare di morire!
Quindi, tutto questo ci porta a dire che non può esistere una cultura superiore a un’altra.
Ritengo che come non c’è una fisica inglese o americana o russa, non esista una filosofia cattolica mussulmana o ebraica. C’è la buona fisica contro la cattiva fisica; c’è la buona filosofia contro la cattiva filosofia. Non usciremo mai dalle false contrapposizioni tipo lo scontro tra le culture se pensiamo alle culture o alle religioni come a essenze eterne, definite una volta per tutte. Le religioni e anche le culture sono ciò che i loro adepti fanno. Non riesco nemmeno a vedere una cultura contro un’altra: penso invece a individui che sono capaci di migrare passando da una cultura all’atra come i grandi viaggiatori, dei grandi pellegrini d’Europa come Giordano Bruno, scomodo difensore del Copernicanesimo, “migrante” anche per la ragione di dover salvare la pelle. Per venire più vicino a noi, penso a figure che si sentivano cosmopolite per definizione come Albert Einstein o Bertrand Russell. Quest’ultimo ha scritto pagine molto amare ma anche molto ricche d’intelligenza contro la piaga del fondamentalismo religioso. Einstein ha lottato per anni contro il razzismo, anche quello nascosto nelle pieghe della democrazia americana. Quindi, io non credo alle identità forti; penso piuttosto che le persone si scelgano le proprie identità. Quando mi si ricorda che nella lingua euskara, “basco” si dice “euskaldun”, colui che possiede tale lingua, e si aggiunge che poniamo un ghanese o uno svedese diventano baschi quando hanno appreso la lingua basca, ciò mi pare un buon esempio di una cittadinanza conquistata con una fatica personale e con una scelta culturale, nonché con una definizione dei propri interessi. Il ribelle irlandese John Mitchel, grande personaggio eclettico dell’Ottocento, era un presbiteriano del nord dell’isola; qualcuno si aspetterebbe che fosse anche un militante orangista. Invece era un repubblicano tra i più lucidi, che non solo fu un teorico dell’ insurrezione popolare contro il dominio britannico, ma anche un coraggioso polemista che denunciò la politica economica dell’Inghilterra al tempo della Grande Carestia. Ecco un personaggio che sconvolge gli stereotipi tradizionali. Penso che avesse ragione Stendhal: la propria patria uno se la sceglie, assumendosi ovviamente le proprie responsabilità. Anche per l’identità religiosa dovrebbe essere così. Quante persone hanno cambiato religione, e non è capitato niente di terribile. John Donne, grande poeta del Seicento, è riuscito a esser nella sua vita cattolico romano, poeta della Chiesa d’Inghilterra, ma anche un puritano.
Nello stato spagnolo la Corte Costituzione ha sancito che sovranità è del popolo spagnolo e non di altri popoli, anche se, implicitamente, ne viene riconosciuta l’esistenza attraverso gli statuti di autonomia.
Mi sembra alquanto bizzarro. La storia della penisola iberica è una storia di diverse comunità, talvolta in dura lotta tra loro, con forti elementi distintivi. Che ne vogliamo fare della grande esperienza della cultura catalana, dei baschi e di El Andalus, che ha una matrice storica ben diversa da quella della Riconquista? Non capisco un atteggiamento che è la negazione della parte migliore della storia della Penisola iberica. Madrid ha cercato di normalizzare; un tempo cercò di farlo anche con il Portogallo, ma andò piuttosto male; tentò addirittura di diventare la normalizzatrice dell’intera Europa, ritenendosi anche più zelante del papa e trasformandosi nel braccio armato della Controriforma. Ma fu bastonata sonoramente da Sir Francis Drake ai tempi della cosiddetta Armada Invencible, che poi tanto invincibile non era. La storia sembra non insegni nulla. Credo avesse ragione Hegel quando diceva che la storia non è maestra di vita perché gli uomini non vogliono imparare. Nel caso poi della democrazia spagnola, perché non ricordare il debito di sangue che essa ha con gli autonomisti catalani e baschi? Perché non ricordare il sacrificio di Barcellona, che salvò agli inizi la Repubblica dal rischio che Franco ce la facesse in poche settimane o la resistenza dei baschi, che furono piegati non tanto dall’offensiva franchista, ma dall’aviazione di Hitler? Il riconoscimento della diversità dovrebbe essere sancito, non fosse altro per una questione di decenza e di memoria storica. La questione basca nel suo insieme è resa ancor più intricata perché non riguarda solo la Spagna ma anche la Francia. Sono dell’idea allora che debba essere una questione europea e non un fatto interno di Spagna o anche di Francia. È un fatto europeo che riguarda tutti noi. Credo pure che sofferenze in un pezzo d’Europa siano sofferenze per tutti gli Europei. Non è solo questione di democrazia all’interno di un singolo Paese. È facile condannare la politica di uno stato autoritario o totalitario contro questa o quella minoranza; ma il fatto che una minoranza sia vessata da una “democrazia” non è per questo meno grave. Né si può liquidare qualsiasi richiesta di indipendenza, come si faceva in Gran Bretagna nel Settecento o nell’Ottocento a proposito di irlandesi o di scozzesi. Avere paura dei propri popoli è una colpa di qualsiasi Stato: si dice “non sono preparati alla libertà”. Ma la libertà non è una malattia a cui bisogna essere preparati o contro cui si deve essere “vaccinati”. La libertà è invece il modo in cui noi possiamo concepire una piena fioritura umana e l’autonomia degli individui: il fatto di affermare che la sovranità risiede in primis nel popolo spagnolo e poi anche nelle province basche è cosa a mio avviso poco europea e poco “occidentale”, nel senso in cui abbiamo prima parlato di un mosaico di visioni e di un mosaico di esperienze che nella loro diversità sono una ricchezza di tutti.
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