by Talking Peace | 2011-04-15 8:15 am
Ertu?rul Kürkçü è uno dei candidati indipendenti sostenuti dal pro kurdo BDP (Partito della Pace e Democrazia) nel blocco denominato “Lavoro, Democrazia, Libertà” alle elezioni politiche del 12 giugno. Kürkçü, 63 anni, è il segretario generale della fondazione IPS comunicazione e il coordinatore di BIA Project (Bianet.org[1]). Ha studiato architettura all’università di Ankara. Molto attivo nel movimento studentesco, nel 1970, è stato eletto presidente della Federazione delle Associazioni Turche Rivoluzionari Giovanili (DEV-GENÇ). Kürkçü è stato uno degli undici giovani rivoluzionari che hanno cercato di liberare Deniz Gezmi?, Yusuf Arslan e Hüseyin ?nan (membri di THKO, Esercito di Liberazione del Popolo Turco) condannati alla pena di morte dalla corte marziale di Ankara dopo il colpo di stato del 12 marzo 1970. Kürkçü è l’unico sopravvissuto dell’operazione militare nel villaggio di K?z?ldere (Tokat), nella quale venne ucciso, tra gli altri, il leader della sinistra rivoluzionaria Mahir Çayan [Il gruppo aveva rapito tre ufficiali britannici, chiedendo la liberazione di Gezmi?, Arslan e ?nan in cambio della vita dei tre britannici. In realtà l’operazione dell’esercito turco costò la vita anche ai tre ostaggi. Ndr.] Arrestato, Kürkçü è stato condannato alla pena di morte, poi convertita in ergastolo. E’ uscito dal carcere dopo 14 anni di reclusione, nel marzo 1986, grazie a un’amnistia.
“La mia candidatura al parlamento? – dice Kürkçü – E’ un lavoro da fare. Il punto cruciale è sempre continuare a diffondere la parola del socialismo. Riuscire a farlo, quale sia il terreno in cui si opera, significa servire gli obiettivi e le convinzioni cui ho dedicato la mia vita”.
Impegnato con gli altri 65 candidati indipendenti in una tre-giorni a porte chiuse a Diyarbakir per decidere strategie, modi e slogan della campagna elettorale, Kürkçü ha accettato di rispondere ad alcune domande che Talking Peace gli ha rivolto.
Hai accettato di candidarti con il blocco “Lavoro, Democrazia, Libertà” sostenuto dal BDP. Su quali basi?
Siamo d’accordo con gli obiettivi generali. Il blocco svolgerà una campagna elettorale su problemi pressanti che vive la società. E’ chiaro dal mio punto di vista che questo non è un’alleanza socialista o anti-capitalista. C’è bisogno di lavorare ancora per giungere a questo. Altre dinamiche devono essere attivate. Ma questo Blocco oggi rappresenta un’opportunità anche per attivare queste dinamiche. Questo Blocco rappresenta un’alleanza degli oppressi e dei lavoratori. Nasce dal movimento socialista turco e dal movimento kurdo.
Chiaramente per il BDP ottenere un numero di deputati maggiore di quello attuale (20) è cruciale.
Certo perché in questo modo va da sé che alla maggior forza del BDP corrisponderebbe una minor forza del partito di governo AKP (Partito della Giustizia e Sviluppo) e del partito di opposizione CHP (Partito della Repubblica del Popolo). Il secondo punto è che una maggior forza del BDP in parlamento favorirebbe la possibilità di comunicare con più forza un progetto di pace. In terzo luogo credo che anche la nostra visibilità e il nostro messaggio di socialisti guadagnerebbe forza in un ampio gruppo parlamentare del BDP. Chiaramente a una forza in parlamento deve corrispondere una forza sul campo, nelle scuole, università, società civile. Tra i lavoratori.
Sei candidato a Mersin. Che situazione c’è in questa città portuale a sud della Turchia?
Mersin è un osservatorio ideale per quello che dicevo prima. Qui c’è una classe operaia organizzata. L’agricoltura e il turismo sono le due attività prevalenti con la conseguenza che la forza lavoro è grandemente sfruttata. D’altra parte a Mersin c’è una grande immigrazione interna kurda. E’ una città mista, turchi, kurdi, arabi, aleviti. Il movimento delle donne è molto attivo. C’è una vivace intellettualità grazie all’università. Insomma, nonostante non sia una grande città è un luogo multiculturale, con una storia di lotta di classe. Un luogo in cui si incontrano le ‘discrepanze’ della Turchia.
Come arriva la Turchia a queste elezioni politiche ?
Il 2010 nonostante le frizioni con i tradizionali alleati occidentali e il fragile equilibrio nel debito estero, è stato per il partito islamico di Recep Tayyip Erdo?an un anno di recupero rispetto alle battute d’arresto del 2009. In molti avevano sospettato che Erdo?an e il suo partito non avrebbero superato l’impatto pesante della crisi economica globale e le battute d’arresto seguite alle elezioni amministrative del 2009. Se dopo le elezioni politiche del 2007 Erdo?an aveva potuto annunciare gongolante che «una persona su due in Turchia sostiene l’AKP» (Adalet ve Kalkinma Partisi, Partito della Giustizia e Sviluppo, che aveva preso il 47 percento dei voti), due anni dopo alle amministrative il 6 percento dell’elettorato ha apertamente dichiarato di non volere l’AKP al governo delle città.
Eppure alla vigilia delle elezioni politiche in programma il 12 giugno 2011, Erdo?an e il suo partito sembrano pronti per un ritorno in grande stile. Molti opinionisti riconoscono che la Turchia molto probabilmente è destinata a crescere più rapidamente di quasi tutti gli altri paesi europei. La Turchia ha infatti in gran parte evitato la malattia del Mediterraneo che invece ha colpito Grecia, Spagna, Portogallo e in una certa misura anche l’Italia. La Turchia mantiene un’inflazione a una cifra e il governo è stato in grado di cestinare il Fondo Monetario Internazionale.
Ma la situazione è davvero così rosea?
Io penso che in questo 2011 la Turchia dovrà prima di tutto affrontare il problema delle relazioni con Israele. Non solo, c’è da capire il destino dei Protocolli con l’Armenia e naturalmente c’è la delicata questione delle relazioni Turchia – Iran. Indico queste tre questioni per rispondere alla domanda che viene spesso fatta in questi mesi: la Turchia si sta concentrando in politica estera sempre più sul mondo islamico? La risposta che si danno gli Stati Uniti (e lo sappiamo grazie alla pubblicazioni dei file riservati da parte di WikiLeaks) è: assolutamente sì. Questo almeno è quello che sostiene l’ex ambasciatore americano a Ankara, James Jeffrey. C’è una seconda domanda che si sono fatti gli USA in questi mesi: tutto ciò significa che la Turchia sta abbandonando il suo orientamento tradizionalmente occidentale, e quindi la sua volontà di cooperare con noi? La risposta che dà Jeffrey è: assolutamente no. Tenendo in mente che le aperture del governo islamico turco nei confronti dei vicini e del medioriente corrispondono alle aperture del capitalismo globale in quella direzione, possiamo dire che la considerazione di Jeffrey rivela una fotografia più coerente delle aspirazioni della classe dirigente turca di quanto non fosse quella presentata dai neo-con che vedevano nella Turchia una sorta di matrioska dove la prima bambolina (lo stato secolare) ne nascondeva in realtà una seconda terrificante, un governo talebano.
L’islamismo turco, così come presentato da otto anni di governo AKP, è per natura molto distante da quello disperato e ribelle dell’Algeria o da quello dottrinale dell’Egitto dei Fratelli Musulmani.
Il movimento islamico turco è controllato dalla classe di imprenditori che cercano di appropriarsi della repubblica secolare piuttosto che di rimpiazzarla con una repubblica islamica, per la semplice ragione che non sono dei gruppi clericali isolati e pii, ma degli uomini d’affari che sono parte dello sviluppo del capitalismo globale. Questa classe cerca un posto al sole, una posizione strategica nella giuntura delle grandi autostrade del capitale, merci, e traffici di energia. Questa classe è ben più consapevole di quella ostinatamente laica dei militari che l’etichetta “diritti umani” è un must nell’esportazione di merci e turismo. Questo ovviamente non significa che la Turchia sotto il partito unico dell’AKP si stia muovendo verso una maggior democrazia. Per Erdo?an e il suo governo la democrazia è uno strumento, non un mezzo. Parlando a una platea di imprenditori, all’inizio del 2011, Erdo?an ha detto che “la democrazia non è il fine ma un mezzo. Qualunque forma di governo, inclusa quella religiosa, ha un proposito, la felicità, ricchezza e prosperità dell’umanità”.
I risultati del referendum sugli emendamenti alla Costituzione che si è svolto il 12 settembre 2010, sono stati sventolati da Erdo?an come una grande vittoria dei sì. I dati, se analizzati bene ci dicono qualcosa di diverso. Potrebbero anche essere un indicatore per le elezioni politiche del 12 giugno 2011?
Mi fa piacere che sollevi questo punto, perché pochi lo fanno. E invece personalmente credo che il risultato del referendum sia estremamente rivelatore. In termini assoluti, hanno votato sì poco meno di 22 milioni di persone aventi diritto, in percentuale il 41.8 percento. Hanno votato no poco meno di 16 milioni di persone, cioè il 30.45 percento degli aventi diritto. Non sono andati alle urne poco meno di 14 milioni di elettori, cioè il 26 percento degli aventi diritto. Un semplice calcolo ci dice che oltre 30 milioni di persone aventi diritto al voto (che sono poco più di 52 milioni) non hanno detto sì agli emendamenti. Questo mi porta a una conclusione: la maggioranza degli aventi diritto in Turchia pensa che nemmeno con degli emendamenti l’attuale Costituzione sia legittima, accettabile. In altre parole la maggioranza della gente in questo paese crede che la Costituzione debba essere riscritta. C’è poi un altro dato che è stato colto poco e comunque poco analizzato dai media: il partito filo kurdo BDP (Partito della Pace e della Democrazia) ha dominato il paesaggio politico nelle province del Sud Est del paese dove la stragrande maggioranza degli elettori ha accolto e fatto proprio l’appello del BDP a boicottare il referendum.
Il referendum ha dunque consacrato il BDP come legittimo rappresentante dei kurdi di Turchia. Il fronte del boicottaggio (di cui facevano parte anche alcuni partiti di sinistra) d’altro canto ha avuto discreto successo nelle province non a maggioranza kurda.
Militari guardiani della Repubblica o islam politico. Eppure un terzo polo esiste in Turchia, ne fanno parte i kurdi senza dubbio (rappresentati dal BDP) ma anche la sinistra sciolta o organizzata nella società civile.
Non v’è dubbio che oggi il discorso politico comprende spesso e volentieri soltanto queste due opzioni: o la restaurazione di una “guardiania militare”, che potrebbe o meno andare d’accordo con il governo dell’AKP, oppure un affondo islamico per uscire da questo impasse. Al momento però non ci sono pericoli reali di un golpe poiché tra le altre cose non esiste un pretesto sociale-economico tale da giustificare una simile azione. Dall’altra parte se è vero che l’AKP persegue una politica socio-culturale che mira alla promozione di valori islamici nella quotidianità anche come strumento di egemonia ideologico-culturale, è abbastanza inconsistente l’idea che l’AKP stia davvero puntando alla costruzione di uno stato islamico. Una Turchia islamica verrebbe probabilmente esclusa dal tavolo dei negoziati per l’ingresso nella UE che è comunque vista, anche dall’AKP come una garanzia per la libera circolazione di capitale e merci turche all’interno della zona euro, che rimane un partner privilegiato per la Turchia.
Per questo un terzo polo è necessario, per allargare le opzioni politiche in Turchia. E’ necessario anche per portare di fronte alla giustizia i responsabili militari e politici di Ergenekon. Naturalmente non è una cosa facile creare questo terzo polo, anche perché può essere costituito soltanto da forze che lottano per una Repubblica Sociale. Penso però che questo terzo polo in Turchia stia emergendo.
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