MODELLO TURCO

by Talking Peace | 2011-12-29 4:28 pm

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Zahide Encu è la madre di Aslan, 12 anni, ucciso nei bombardamenti di mercoledì notte. “Il mio figlio maggiore – racconta – è rimasto ferito camminando su una mina. Ha perso una gamba. Aslan comprava e vendeva cose di contrabbando al confine anche per racimolare i soldi per una protesi per suo fratello. Me l’hanno ammazzato”, grida, la voce si perde in un lamento che fa venire i brividi. Aslan era andato a comprare al mercato nero della frontiera due taniche di benzina per rivenderle. “Il contrabbando – dice Halit Encu, parente di Aslan – è l’unica fonte di guadagno che abbiamo”. Il contrabbando, la frontiera. Storie che si incrociano, storie di miseria, guerra, fame. Le abbiamo viste al cinema, nel film pluripremiato del regista iraniano Bahman Ghobadi. Il tempo dei cavalli ubriachi. Raccontava queste storie il regista kurdo di Adana Yilmaz Guney, negli anni ’60. Non è cambiato molto alla frontiera kurda. La gente cerca di sopravvivere ma ha un nuovo nemico, la guerra. Una guerra voluta da Ankara che non accetta di riconoscere non solo l’esistenza del popolo kurdo, ma nemmeno le sue sofferenze. Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) ha negli anni proposto attraverso cessate il fuoco unilaterali alternative al conflitto. Ma ha incontrato solo silenzio e porte sbattute in faccia. Lo stesso vale per il BDP (Partito della Pace e della Democrazia) che ha eletto 36 deputati al parlamento turco lo scorso 12 giugno. Un deputato (Hatip Dicle) è stato privato del suo mandato e si trova in carcere come altri cinque parlamentari in carica ma dietro le sbarre. L’offensiva del governo dell’AKP (che significa, ironia della sorte, partito della giustizia e sviluppo) guidato da Recep Tayyip Erdogan (uomo con il mito di se stesso, non a caso grande amico del nostrano Silvio Berlusconi) ha raggiunto livelli molto alti in questi ultimi mesi. In carcere sono finiti migliaia di kurdi e oppositori di sinistra: amministratori locali, intellettuali, studenti, sindacalisti, donne, avvocati, giornalisti. Tutti rei, secondo il teorema Erdogan, di essere membri o sostenitori del PKK.

Risulta difficile capire se il premier turco abbia in mente di eliminare (sbattendoli in galera o uccidendoli) i 20 milioni di kurdi che vivono in Turchia. Le ultime operazioni militari e di polizia inducono a pensare che qualcosa sia sfuggito di mano a Erdogan. Oppure, grazie al colpevole silenzio dell’occidente, davvero Ankara pensa di risolvere così la questione kurda. Cosa evidentemente impossibile. Ma è chiaro che, consapevole di questo, Erdogan ha intenzione di indebolire più che può l’opposizione kurda e di sinistra. Che qualcosa stia sfuggendo di mano al premier lo dimostrano le schizofreniche dichiarazioni dei suoi ministri. Per un vice premier (Bulent Arinç) che annuncia un nuovo pacchetto di “riforme” che prevede tra l’altro di depenalizzare (sì perché adesso è reato e si finisce in galera per apologia di terrorismo) l’uso del titolo “signor” per parlare del leader del PKK Abdullah Ocalan, ecco il ministro degli interni Idris Naim Sahin dichiarare che “il terrorismo il PKK lo fa anche con pennelli, penne, fotografie, musica, arte e cultura”. Dichiarazioni che si fermano sulla soglia del dichiarare che il BDP è parte del PKK. Così come parte del PKK sarebbero gli elettori del BDP e per estensione i kurdi, compresi i 25 civili uccisi mercoledì notte.

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