MEMORIA STORICA CONDIVISA
Risolvere conflitti annosi, che hanno radici storiche e che si manifestano con negazioni e violenze di sistema, non è compito facile e nemmeno lineare. Le soluzioni possono seguire due grandi principi: o si accetta l’esistenza dell’avversario con la sua visione del presente e il suo carico di responsabilità storica e si lavora per trovare un linguaggio comune nella ricerca di una mediazione possibile o si sceglie la strada della negazione dell’altro, delle sue ragioni, si lavora per la sua sconfitta ed eliminazione. La seconda opzione è quella che nasconde tra l’altro ciò che in psicologia si chiama proiezione, vale dire attribuire all’altro responsabilità che sono proprie. Gli esempi non mancano. In Sri Lanka la seconda opzione ha significato lo sterminio di decine di migliaia di persone, non risolvendo in assoluto il problema. Perché uno è ciò che è, non ciò che gli altri vorrebbero che fosse. In Irlanda del Nord ma anche in Sud Africa la sforzo di parlare tra opposti, con ragioni palesemente contrapposte e sbilanciate – su questioni come la visione del mondo e della giustizia, l’apartheid che in diverso modo sia gli unionisti che gli afrikaner avevano imposto a repubblicani irlandesi e maggioranza africana, non può essere comparato con l’esigenza di rappresentanza, o un uomo un voto – testimoniano che anche il dialogo più impossibile, se si accetta la realtà e si ha volontà, è possibile. Perché, altrimenti, non solo la violenza si incancrenisce ma non si accettano nemmeno “norme e convenzioni” che tendono ad “umanizzare” conflitti violenti. Colombia e Cecenia, tra gli altri, insegnano. Sia nel paese latino americano che in quello caucasico il pretesto della “lotta al terrorismo” giustifica e permette una violazione sistematica dei diritti umani e politici, provocando un numero di vittime incomparabilmente superiore a quello dei gruppi armati dissidenti. Per questo è importante che s’imponga la volontà di risolvere i conflitti tra uguali e soprattutto che si accetti la sfida tra diverse visioni del mondo, diverse culture, diverse idee di giustizia politica economica e sociale. Interiorizzato questo cammino è importante perseguirlo nonostante gli ostacoli e la paure, le vertigini, che questi scenari presuppongono, perché dovranno poi dare voce finalmente e direttamente alla popolazione, troppo spesso strumentalizzata, silenziata.
Kurdistan
Nel caso kurdo le cose sono in qualche modo ‘complicate’ ulteriormente dalla negazione dell’esistenza stessa dei kurdi come popolo. La Turchia ha costruito la sua identità a partire dalla negazione delle altre, compresa quella kurda. La Turchia declina la sua identità con una serie di ‘non essere’. In altre parole si tratta della costruzione di sé non proponendo valori ma denigrando ciò che ci sta attorno. E dal denigrare al tentare di annientare il passo è breve, perché questo tipo di costruzione identitaria non può che presupporre un sentirsi perennemente sotto assedio. Quindi i kurdi non esistono, nella speranza che (con l’aiuto di massacri e una repressione istituzionalizzata) non si ribellino. Naturalmente la storia dimostra che difficilmente l’oppresso non proverà a liberarsi. E la storia del conflitto turco-kurdo ne è un’ulteriore conferma. Alle ribellioni segue una repressione indicibile. Senza esclusione di colpi, dalle operazioni militari, alle leggi elettorali con sbarramenti improbabili, alla legislazione che nega libertà di pensiero e di opinione, all’illegalizzazione delle espressioni democratiche del popolo, partiti, associazioni, giornali, sindacati.
In questa fase, a fronte di una proposta (accompagnata da una lunga tregua unilaterale del PKK) da parte kurda mirata al dialogo, si assiste all’ostinato rifiuto del governo e dei poteri reali dell’establishment turco. I prossimi mesi saranno importanti per capire in che direzione Ankara intende muoversi.
Nel conflitto basco spagnolo e francese questo schema si manifesta in tutti gli aspetti. La Sinistra indipendentista basca ha fatto un passo storico e decisivo non solo accettando, in modo irrevocabile la strada di un “processo democratico”con “assenza totale di violenze ed ingerenze” dove un soggetto storicamente presente nella società basca, quello per la sovranità e la giustizia sociale, possa competere e proporre il suo progetto politico e se accettato dalla maggioranza anch’esso possa essere messo in pratica. Ma, per chi ha avuto modo di leggere il documento che stato discusso tra la base di questo movimento politico lo potrà constatare, anche per costruire una propria memoria storica assumendo le proprie responsabilità politiche ed umane. La richiesta presente nell’ultimo comunicato emesso dopo i fatti di Parigi, la morte di un poliziotto francese ad opera di ETA, testimonia che la strada intrapresa è senza ritorno. ETA dal canto suo ha accettato questa sfida anche se dovrà compiere altri passi in questa direzione. Ma per l’avversario sia esso il Governo di Madrid o Parigi siano le forze politiche spagnole, PSOE e PP, ma anche alcune basche, vedi il PNV, non basta. C’è una “condanna” a vita nei confronti della sinistra basca. C’è una richiesta esplicita di condanna nei confronti dell’ETA quando lo stesso Rubalcaba, Ministro degli Interni spagnolo, si era premurato di dire, pochi mesi fa, che questa condanna non sarebbe stata sufficiente. Del resto un paese come la Spagna dove la classe dirigente, sia politica che economica, gioca a ping-pong con a memoria storica, che ha taciuto, metabolizzato, approfittato dell’unica dittatura dell’ Europa occidentale, quella franchista che ha giustiziato centinaia di migliaia di persone, che non si è conclusa con una rottura o con un processo storico, politico e giudiziario, ha grandi difficoltà ad accettare un dialogo a tutto campo con una realtà come la sinistra indipendentista che è espressione viva di questa memoria negata. Lo stesso Rubalcaba, non perde occasione di ricordarlo, ammonisce sul pericolo che il patrimonio storico della sinistra indipendentista basca caratterizzi la natura di un possibile dialogo. La memoria preoccupa. E non servirebbe andare troppo lontano. Basta ricordare come la tanto decantata transizione politica spagnola, la più grande operazione di cosmesi politica, non è stata indolore. Come hanno fatto credere. Dal 1975 al 1983 più di 600 persone sono state uccise per motiv politici. Se sulle vittime provocate dai gruppi armati come ETA e GRAPO, storicamente e processualmente si sa tutto o quasi, ma per le circa duecento vittime a mano delle forze di sicurezza spagnole e dei gruppi paramilitari ad essere legate nulla o quasi si è fatto. Del resto se pensiamo che nel 1983 nove dei dodici, responsabili dei Comandi della Policia Nacional nello stato spagnolo provenivano dalla Brigada Politico Social, la polizia politica franchista, la natura dell’ ordine pubblico della transizione spagnola è presto spiegata. Ma anche sulla tortura sistematica durante i franchismo, e continuata fin ai nostri giorni il silenzio è generale. O sulla guerra sporca (parallela) che a partire dal 1975 ha provocato un centinaio di vittime, che portò in carcere una decina di funzionari ello stato ma con pene che si risolsero con due o tra anni al massimo di permanenza in carcere e che, nel caso GAL (1983-1987, una trentina di vittime mortali) lo furono solo per un sequestro di un cittadino francese e per le torture l’uccisione e la sparizione dei due rifugiati baschi Lasa e Zabala. O del buco nero del narcotraffico che in questi decenni ha visto implicati, a più riprese alti gradi delle forze di sicurezza spagnole con risvolti, denunciati ed insabbiati, nel conflitto basco spagnolo. I due pesi e due misure per leggere un passato quando la soluzione del conflitto necessita una memoria condivisa.
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