TURCHIA TRA MILITARI, EUROPA E MEDIO ORIENTE – Orsola Casagrande

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Ankara. Non è facile districarsi nel labirinto che è la fase attuale della politica turca. Due o tre elementi però sono chiari. Il governo islamico dell’AKP (Partito della giustizia e sviluppo) guidato dal premier Recep Tayyip Erdogan sta provando l’affondo nei confronti dei militari. Secondariamente, Erdogan sta cercando di riposizionare la Turchia spostandola verso oriente (e i recenti accordi con l’Iran ne sono l’esempio più eclatante) pur non rischiando rotture traumatiche con l’occidente. In terzo luogo il premier sta tenendo premuto l’acceleratore anche per quel che riguarda la guerra con i kurdi, in questo solo apparentemente sostenendo l’esercito e le sue operazioni. Infatti Erdogan rispetto ai kurdi sta privilegiando la carta della divisione ‘etnica’, condita certo di violenza ma non necessariamente ‘militare’.

Per capire a che punto siano i rapporti tra governo e militari vale la pena sottolineare un paio di avvenimenti di questi giorni o mesi. Partendo dall’ultimo episodio, il consiglio dello YAS (Consiglio Militare Supremo) che si è chiuso il 6 agosto. Il summit avrebbe dovuto concludersi con la nomina dei nuovi vertici militari e la promozione di un certo numero di ufficiali. Lista che è arrivata puntualmente sul tavolo del presidente della repubblica, Abdullah Gul per la ratifica. Il presidente ha ratificato tutto con l’eccezione delle due posizioni più alte, quella del capo supremo delle forze armate e quella del comandante delle forze di terra. Non esattamente due ‘dettagli’. Non solo, il governo aveva chiarito che non avrebbe accettato nomine di generali coinvolti nella ormai tentacolare inchiesta Ergenekon (la Gladio turca, sospettata di aver tramato con diversi militari svariati piani di golpe) e nelle inchieste sui progetti di colpi di stato. Una precisazione che ha fatto saltare parecchie teste candidate a posizioni anche piuttosto importanti nella gerarchia militare.

Ora c’è tempo fino al 31 di agosto per annunciare candidati per le due posizioni più alte. Non una cosa facile. Come rivelano i continui incontri bilaterali tra Erdogan e il capo supremo delle forze armate uscente, il generale Ilker Basbug. Figura controversa, considerato anche l’artefice di una strategia per contrastare il governo in questa fase. Il candidato delle forze armate per il posto occupato da Basbug era il generale Igsiz. Ma la sua candidatura è stata contrastata dal governo perché Igsiz è uno dei generali chiamati a deporre per presunto coinvolgimento in uno dei piani di golpe. Il candidato di ‘riserva’ era il generale Hasan Isik, che nei giorni scorsi ha però ritirato la sua candidatura (che non sarebbe dispiaciuta al governo), riportando all’inizio la partita sul futuro capo supremo delle forze armate. Si dice che proprio Basbug abbia fatto pressione su Isik perché si ritirasse. Un segnale chiaro al governo. Un governo che, contrariamente a quanto accaduto finora, ha deciso di usare il diritto garantitogli dalla legge di esercitare un ruolo attivo e decisivo nella nomina e promozione dei vertici militari. La lista presentata dalle forze armate infatti è, per legge, indicativa, non vincolante. Ma fin qui nessun governo si era opposto o aveva criticato la lista fornita dai militari. L’AKP ha osato farlo. E questo non è piaciuto ai militari. Militari che si trovano davanti anche a un altro problema, causato dall’attuale governo. Il 12 settembre infatti (non a caso nell’anniversario del colpo di stato del 1980) gli elettori della Turchia sono chiamati a votare nel referendum di modifica della Costituzione (varata dai militari golpisti del 1980). Si tratta di una serie di emendamenti che nella sostanza modificano poco o nulla. Non è la Costituzione democratica che chiedono la società civile, gli intellettuali e il BDP (partito della pace e della democrazia, filo kurdo), che infatti stanno facendo una campagna per il boicottaggio del referendum. E’ più che altro una prova di forza da parte dell’AKP che ha ‘osato’ violare un altro tabù, quello appunto della modifica alla Costituzione dei militari.

E’ in questo contesto complesso nelle relazioni tra militari e governo che si inseriscono le ambizioni di Erdogan che sogna una Turchia ‘faro’ nel Medio Oriente ma capace per questo di essere referente unico dell’Europa e degli Stati uniti. L’accordo con l’Iran e il Brasile sull’uranio va letto in quest’ottica. E’ vero che sia la Turchia che l’Iran vogliono avere relazioni cordiali. Per l’Iran la Turchia è un ponte importante verso il mondo occidentale. Come intermediario il ruolo della Turchia è cruciale. Almeno in Turchia l’Iran può sperare di trovare un’opinione pubblica attenta e perfino simpatetica che potrebbe spingere per un comportamento ufficiale un po’ più benevolo. Chiaro che anche in Palestina (con Hamas) e in Libano (con Hezbollah) l’Iran gode di simpatia, ma questi sono luoghi non così importante strategicamente come invece la Turchia. In secondo luogo la Turchia può rappresentare una via di fuga per l’Iran in caso di embargo economico da parte dell’occidente. Per Erdogan d’altro canto, avere buone relazioni con l’Iran offre almeno tre vantaggi. La Turchia infatti per poter penetrare la regione in generale e in particolare paesi come appunto l’Iran, ma anche la Siria deve costruire buone relazioni. In secondo luogo questa penetrazione è economicamente vantaggiosa perché i paesi dell’area rappresentano dei buoni mercati per le merci turche e inoltre possiedono buone fonti di energia (e non vanno dimenticate le aspirazioni della Turchia a diventare passaggio del gas naturale e del petrolio). Infine, politicamente, una Turchia con buone relazioni con i paesi di quell’area rappresenta anche un vantaggio per l’occidente. Nell’ottica appunto del tenere buoni rapporti anche con la UE e gli USA. Naturalmente il fatto che la Turchia voglia assumere il ruolo di primadonna in quest’area non piace a Israele. E però entrambi rimangono ‘alleati strategici’ sotto l’egida degli Stati uniti. E questo non va dimenticato. Il massacro della Mavi Marmara, la nave di aiuti umanitari diretta a Gaza e attaccata dagli israeliani, certo ha irrigidito le posizioni turche. Sono volate parole molto dure. Ma basta guardare alla lista degli affari con Israele per capire che nulla è cambiato: business as usual. Certo magari più sommesso. E senza dubbio con molte tensioni. L’ultima riguarda la conversazione registrata a sua insaputa e passata alla stampa, del ministro della difesa israeliano Ehud Barak che a proposito del sottosegretario turco per il MIT (i servizi segreti turchi), Hakan Fidan, ha detto: “La Turchia è un paese amico, un alleato strategico, ma la nomina di Fidan, che è un sostenitore dell’Iran, ci preoccupa. Ci sono un bel po’ di segreti che ci riguardano e di cui la Turchia è a conoscenza che potrebbero finire nelle mani dell’Iran. E questo è molto irritante”.

A completare il quadro c’è la questione kurda. Il fallimento della cosiddetta ‘iniziativa democratica’ lanciata dal premier Erdogan come la risoluzione del conflitto che dura dal 1984 (nella sua ultima fase, quella guidata dal PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan), è ormai assodato. Qualcuno sintetizza il fallimento così: Erdogan voleva risolvere la questione kurda senza i kurdi: come voler fare una frittata senza le uova.

Le operazioni militari continuano in tutto il sud est lasciando sul terreno morti da entrambe le parti. Ma c’è un nuovo elemento che riguarda quelle che il BDP (partito della pace e della democrazia) definisce ‘prove tecniche di guerra civile’. Provocatori abili e addestrati vengono mandati nelle città del Mar Nero, come nella costa dell’Egeo o nel sud est (a Hatay per esempio al confine con la Siria). Scoppiano disordini per vari motivi, dal misterioso agguato a un’auto della polizia (a Hatay), a liti per futili motivi, che si trasformano in assalti violentissimi contro tutto ciò che è kurdo, persone, negozi, case, uffici politici e di associazioni. Luglio e agosto hanno segnato un’escalation in questi attacchi preoccupante. Il governo minimizza e cerca di scaricare la colpa sui ‘servizi deviati’ o elementi paramilitari. E non interviene. Intanto la guerra continua.


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