Kurdistan turco. La pace possibile
Che protestava sia per la proposta (ancora non annunciata pubblicamente) del governo sulla questione kurda, sia per la scelta di discutere di questa proposta nel giorno del settantunesimo anniversario della morte del padre della patria, Mustafa Kemal Ataturk. Due affronti ritenuti inaccettabili dai kemalisti del Chp (partito della repubblica del popolo), all’opposizione, che guidati dal loro leader Deniz Baykal hanno costretto il presidente del parlamento prima a sospendere a più riprese la seduta e quindi ad aggiornarla a oggi, mentre giovedì sarà il premier Recep Tayyip Erdogan a intervenire.
La settimana prima dell’intervento in parlamento il partito al governo, l’islamico moderato Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo), aveva presentato una mozione richiedendo la convocazione per il 10 novembre per discutere con i partiti di opposizione della proposta governativa per una soluzione della questione kurda. Da mesi ormai il governo dice di avere pronto un pacchetto di misure per risolvere il conflitto che insanguina la Turchia da un quarto di secolo. In realtà di questo pacchetto ben poco si sa. Il governo si era affrettato a dire di avere pronta una proposta tre mesi fa, dopo l’annuncio che il presidente del Pkk, Abdullah Ocalan (rinchiuso dal 1999 nel carcere-isola di Imrali, in Turchia) stava scrivendo una sua “road map” che avrebbe pubblicamente presentato, tramite i suoi avvocati, a settembre.
Il ministro degli interni Atalay aveva frettolosamente e vagamente citato le linee guida di questo pacchetto: riconoscimento della lingua kurda attraverso l’istituzione di corsi, una sorta di “perdono”, non amnistia, per quei militanti del Pkk che avessero abbandonato le armi e di fatto abiurato la lotta armata, l’istituzione di un istituto di kurdologia all’università di Mardin. Nei fatti l’iniziativa del governo ha come obiettivo principale quello di “facilitare” il ritorno dei militanti del Pkk in Turchia. Il test sulla genuinità di questo obiettivo è stato fatto in ottobre quando 34 guerriglieri del Pkk scesi dalle montagne del Kurdistan iracheno sono entrati in Turchia, salutati da una folla immensa a Diyarbakir.L’arrivo dei “gruppi di pace” è stato subito bloccato dal governo dopo le critiche dell’opposizione che sosteneva che “i terroristi tornano a casa a festeggiare la vittoria”. Nelle intenzioni dell’esecutivo i guerriglieri non sarebbero arrestati ma mandati a seguire un “programma di riabilitazione” di tre mesi. L’arresto sarebbe evitato perché i guerriglieri dovrebbero prima dire di essersi pentiti della scelta fatta (come previsto dall’articolo 221 del Codice Penale, noto come “legge del pentimento attivo”). Tra gli altri punti dell’iniziativa del governo lo svuotamento, sotto la supervisione delle Nazioni unite, del campo profughi di Mahmur (oltre dodicimila persone), in nord Iraq, ritenuto dalla Turchia il rifugio dei guerriglieri kurdi. Proprio ieri, mentre il ministro Atalay cercava di parlare, è arrivata la notizia che molti profughi avevano cominciato a lasciare il campo diretti verso la Turchia, in una sorta di nuovo “gruppo di pace”.
Il ministro Atalay il 10 novembre non è riuscito a parlare, lo ha fatto nei giorni successivi, anche se la proposta di ‘soluzione’ del governo rimane vaga. E’ chiaro però che in Turchia sta accadendo qualcosa di nuovo. E di storico, perché mai era accaduto che in parlamento si discutesse di questione kurda con una ipotesi (per quanto vaga o inadeguata) di risoluzione del conflitto. Al massimo se ne era parlato per approvare nuove operazioni militari o prolungare lo stato d’emergenza nelle zone kurde.
Accusando il governo di denigrare il padre della patria, Ataturk, il leader del Chp, Baykal ha urlato che “per la prima volta nella storia della Turchia viene messo in atto un complotto da parte del partito di governo contro le conquiste della repubblica. Stanno mettendo in pratica questo complotto in nome dello sviluppo della democrazia”, ha tuonato Baykal, mentre i suoi colleghi di partito srotolavano striscioni che dicevano “Ataturk, noi seguiamo il tuo cammino” e “La Repubblica è la tua eredità e noi la porteremo avanti”.
Non v’è dubbio che da quando (era la primavera del 2009) il presidente del Pkk Abdullah Ocalan ha annunciato di essere impegnato nella stesura di una ‘yol haritasi’, una road map per una soluzione pacifica al conflitto che vede turchi e kurdi contrapposti militarmente dal 1984, il governo islamico moderato ha cominciato a dare segni di impazienza. Da una parte Erdogan deve rispondere alle aspettative (perché non si può certo parlare di pressioni) dell’Unione europea che alla Turchia chiede riforme in materia soprattutto di diritti umani per poter avanzare nella lunga strada che porta all’ammissione nella Ue. Dall’altra è indubbio che Erdogan ha deciso, tra gli strali dell’opposizione kemalista e del potente esercito, di affrontare la questione kurda. Spinto in questo soprattutto da una consapevolezza ormai innegabile: militarmente la questione non può essere risolta. Né il Pkk né l’esercito possono infatti essere sconfitti. Inoltre i kurdi, che da tempo ormai hanno abbandonato le rivendicazioni di uno stato nazionale indipendente e nuovo, stanno lavorando su una soluzione negoziata che porti a una pace giusta e duratura.
La road map di Ocalan (che è detenuto nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali dal 1999) doveva essere resa pubblica a settembre. Ma le autorità carcerarie a cui Ocalan ha inviato il manoscritto ancora non lo hanno consegnato ai legali del presidente del Pkk. In questi mesi comunque si è appreso a grandi linee il contenuto di questa road map. Che è il frutto di proposte e considerazioni che sono state discusse e approvate in Kurdistan, Turchia e Europa. Dagli intellettuali alle organizzazioni kurde della società civile, dai rappresentanti politici kurdi ai guerriglieri, tutti hanno avuto occasione di dire la loro sulla formulazione di una proposta per una soluzione negoziata del conflitto kurdo-turco. Il presidente del Pkk ha quindi raccolto tutti i suggerimenti ed elaborato il suo articolato documento. Quasi duecento pagine, che sono un modello di società e non soltanto una proposta di via negoziale. Tre sono le fasi che Ocalan individua nella sua road map.
Lo stato garantirà i diritti dei kurdi. “Ci daranno garanzie. – scrive Ocalan – Dimostreremo allo stato che non siamo separatisti. Dichiareremo che abbiamo abbandonato i metodi violenti. A quel punto potrà essere stabilito un cessate il fuoco. Lo stato darà ai kurdi il diritto di autogovernarsi”.
La seconda fase riguarda la questione delle forze armate. “Quando la prima fase sarà completata sarà possibile muovere le forze armate fuori dal paese”, scrive Ocalan.
Infine la terza fase riguarda le “garanzie date” che “troveranno – dice Ocalan – la loro attuazione pratica nei cambiamenti della legislazione”. E’ in base ai cambi legislativi che la popolazione avrà il diritto al ritorno.
Entrando più nei dettagli della proposta di Ocalan, l’idea di fondo è quella di costruire fiducia tra le parti in conflitto, come primo passo. E’ per questo che lo stato dovrebbe, nelle intenzioni di Ocalan, attuare misure e prendere decisioni che convincano i kurdi della buonafede nel processo di negoziazione. Solo allora, dice Ocalan, “noi potremo dichiarare che non ricorreremo più a metodi violenti e che non è nostra intenzione quella di dividere lo stato. Allora – insiste Ocalan – potremo eliminare dalla discussione politica la violenza. Solo allora si potrà stabilire un cessate il fuoco”.
Per quanto riguarda la seconda fase, quella relativa all’uscita di scena delle forze armate (sia statali che guerrigliere), Ocalan è chiaro. “Se la fase uno sarà completata allora le forze della guerriglia potranno lasciare i confini turchi”. La terza fase infine dovrà contemplare, in base alle garanzie date, il cambiamento della legislazione, della costituzione, delle leggi e dei regolamenti. “L’attuale costituzione deve essere cambiata” insiste Ocalan, ricordando che la attuale costituzione turca è quella redatta dai militari dopo il cruento colpo di stato del 1980.
“Adesso siamo in una fase di studio. – ha detto Ocalan in uno dei colloqui con i suoi avvocati – Il Pkk sta studiando le mosse dello stato, è vero. Lo stato sta studiando il Pkk. Non è una fase di dialogo. Ci sono sospetti reciproci”. E i sospetti da parte dello stato e delle forze armate, che fino a questo momento non sono intervenute direttamente sulla proposta del governo, la cosiddetta ‘iniziativa democratica’ (se non per dire che guardavano con favore al lavoro dell’esecutivo), riguardano anche le posizioni che assumeranno l’Europa da una parte e gli Stati uniti dall’altra. Perché per Ankara, qualunque soluzione, deve apparire come una vittoria per l’apparato dello stato e militare. Per questo si insiste molto sull’estromissione del Pkk come possibile interlocutore o comunque come parte in causa al tavolo dei negoziati. Ma è evidente che i kurdi dovranno poter scegliere il loro rappresentante, che non potranno esserci pre-condizioni al dialogo altrimenti verrebbe inficiato qualunque sforzo verso una soluzione negoziata del conflitto. Va da sé che uno dei punti fermi di qualunque processo di pace (Sud Africa e Irlanda del nord insegnano) è che tutte le parti del conflitto devono avere pari dignità e pari status. Il negoziato si fonda sul riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti.
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha incontrato il presidente degli Stati uniti Barack Obama a Washington il 7 dicembre scorso. In questo colloquio si è parlato di varie questioni, in primis del ruolo che la Turchia potrebbe avere nella disputa con l’Iran sul programma nucleare. Obama aveva chiesto ai turchi (alleati Nato importanti) di aumentare lo sforzo (cioè gli uomini) in Afghanistan. Ankara ha risposto picche, sostanzialmente. Ma nel colloquio con Erdogan, Obama ha incassato il colpo senza lasciar trasparire troppo disappunto. Nell’agenda dei due anche la questione del Nagorno Karabak. E infine, sollecitati dai giornalisti, soltanto in conferenza stampa i due leader hanno affrontato la questione kurda. In questi termini. Alla domanda “c’è qualche piano nuovo e concreto da parte degli Usa per il disarmo e l’eliminazione del Pkk? Barack Obama ha risposto, testualmente, “Con Erdogan abbiamo discusso su come coordinare gli sforzi per affrontare il problema del Pkk congiuntamente. Abbiamo già detto e l’ho ripetuto io che gli Stati uniti considerano il Pkk una organizzazione terroristica e che la minaccia che pone non solo in Turchia ma anche in Iraq ci preoccupa. Come alleati Nato siamo tenuti ad aiutarci a difendere i nostri territori. Più in generale penso che sia importante per noi avere una posizione coerente rispetto al terrorismo ovunque operi. Abbiamo dunque discusso di come possiamo coordinarci militarmente. Rispetto alla questione del Pkk, penso che i passi intrapresi dal primo ministro turco nei confronti di una inclusione della comunità kurda siano molto importanti perché una delle cose che sappiamo è che il terrorismo non può essere affrontato soltanto militarmente: ci sono anche componenti politiche e sociali che devono essere riconosciute”.
Parole che vanno lette senza farsi troppe illusioni ma che indicano comunque una direzione che non è più soltanto quella militare. Ovviamente l’idea di ‘riconoscimento dei diritti della comunità kurda’ degli Stati uniti o della Turchia è ben diversa da quella degli stessi kurdi, del Dtp o di Ocalan. Ma è su questo piano, cioè sul piano politico che ormai sembra destinata a spostarsi la partita. Non avverrà nello spazio di un mattino. Non sarà facile. Ma sembra ormai, fortunatamente, inevitabile.
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