Haiti: il riscatto possibile

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Haiti sta diventando il paradigma del fallimento dell’occidente come riferimento per affrontare gli immani problemi che il mondo presenta. Povertà, conseguenze dello sfruttamento dissennato delle risorse naturali, guerre trovano come risposta, nelle grandi conferenze internazionali, deboli o nulle proposte che nel migliore dei casi si riducono a pronunciamenti di principio. Basti pensare alla conferenza sul clima di Copenaghen di alcune settimane fa. Haiti è stato teatro di uno dei più grandi cataclismi naturali degli ultimi decenni. Eppure anche in questo caso la mancanza di una visione umana dei problemi ha dato luogo a iniziative che evidenziano il caos organizzativo determinato, non tanto dalle dimensioni apocalittiche del terremoto, ma soprattutto da strategie poco nobili che sottendono alle misure adottate.

Uno degli aspetti chiamato in causa per spiegare queste difficoltà di un intervento efficace è stata la mancanza di un “centro decisionale” dovuto alla assenza di un governo sull’isola. O meglio il governo c’è ma si è dimostrato essere una sorta di emissario di poteri che non hanno sede a Port au Prince. E qui le responsabilità ci sono.

Il giornalista Kim Ives del giornale Haiti Libertè ricorda come 12 anni di governi fantoccio imposti sulla isola dagli Stati Unti, ed avallati anche da altri paesi latinoamericani, come il Brasile, abbiano depredato i pochi strumenti economici di cui disponeva l’isola.

“12 anni fa, durante la prima amministrazione di René Preval, si privatizzarono la Minoterie d’Haiti and Ciment d’Haiti e le imprese produttrici di farina di grano e cemento. Per quanto riguarda il grano, in questo momento abbiamo una popolazione affamata. Immaginatevi quali possibilità ci sarebbero se lo Stato se avesse una impresa robusta per produrre farina, il popolo avrebbe di che mangiare. L’impresa invece venne venduta ad una compagnia di cui Henry Kissinger era membro del consiglio di amministrazione. E poi, l’impresa venne chiusa. Adesso Haiti non ha una impresa che produca farina di grano, ne pubblica ne privata. Adesso Haiti deve importarlo ed una buona parte proviene dagli USA”. “Un altro caso – più ironico – è quello della fabbrica di cemento. Si tratta di una paese, Haiti, la cui struttura geologica consiste, soprattutto di calcare, che è l’elemento base del cemento. E’ un paese che assolutamente dovrebbe e potrebbe avere una impresa produttrice di cemento, e ce l’aveva, pero fu privatizzata e affrettatamente chiusa poco dopo. I suoi impianti vennero utilizzati per importare cemento. Cosi quando viaggiamo per il paese e vediamo le migliaia di edifici di cemento crollati e rasi al suolo, ricordiamoci che si avrà bisogno di milioni di tonnellate di cemento, e adesso sarà necessario importare tutto questo cemento invece di produrlo qui. Haiti potrebbe benissimo esportare cemento e non importarlo”. Kim Ives ricorda un altro settore che avrebbe avuto un’ importanza strategica in queste fasi di emergenza, quello della telefonia. Il governo Preval mise in atto una politica, in linea con le strategie adottate in altri paesi, per privatizzare imprese pubbliche, a di decapitalizzazione della impresa telefonica di stato Teleco, ostacolando la sua modernizzazione nonostante avesse disposizione le apparecchiature per farlo. “Teleco fu l’atto di sepoltura delle imprese statali ad Haiti. Durante il primo golpe di stato 1991-1994, le entrate di Teleco mantennero il governo esiliato del Presidente Aristide. Una settimana prima del terremoto questa compagnia venne privatizzata. L’hanno venduta ad una compagnia vietnamita, la Viettel. Se avessimo in questo paese una impresa telefonica nazionale forte e dinamica si sarebbero evitati, gran parte dei problemi di comunicazione che ci sono. Al contrario, tutte le comunicazioni del paese sono in mano praticamente atre compagnie private di telefonia mobile: Digicel, Voila y Haitel”. (1)

In quadro che esce da questa fotografia è di una paese che necessita soprattutto un sostegno costruttivo e non funzionale ad interessi stranieri. L’immagine che si è data in questi giorni sui mass media, è di un paese attraversato da violenze e saccheggi non trova riscontro nell’realtà. I saccheggi non sono avvenuti in case private ma quasi sempre in edifici pubblici o commerciali ed in una paese che è il più povero dell’ America Latina la cosa dovrebbe essere considerata logica, come aveva ricordato alcuni giorni fa la stessa Croce Rossa Internazionale. Esiste ad Haiti, una fitta rete di organizzazioni popolari che lavorano sul territorio e che hanno permesso di canalizzare in molti casi gli aiuti che arrivavano, quando arrivano.

Aspetti che si sono intravisti nello speciale della trasmissione “In mezz’ora”di Lucia Annuziata sui RAI3 (2) che ha provocato una serie di reazioni a casusa delle dichiarazioni del Commissario della Protezione Civile italiana Bertolaso, il quale ha sottolineato un dato sotto gli occhi di tutti: che gli Stati Uniti hanno privilegiato la prova di forza militare invece che intervento mirato agli aspetti umanitari. A parte le proposte di Bertolaso, in linea con la sua visione accentratrice, sulla necessita di “un uomo forte” che coordini la mobilitazione internazionale degli aiuti, il dato che ormai emerge chiaro e che è necessario un coordinamento stabile per interventi umanitari e che l’organo preposto dovrebbero essere le Nazioni Unite se svolgessero il ruolo . In tal senso è la proposta avanzata dai paesi dell’ ALBA, Venezuela, Cuba Ecuador Bolivia Nicaragua, che in riunione straordinaria a Caracas, hanno anche proposto la costituzione di un fondo per la ricostruzione di Haiti, promosso dal Banco dell’ALBA al quale invitare altri organismi finanziari internazionali.

I mass media, in realtà, non stanno contribuendo a creare la coscienza necessaria per convogliare gli aiuti in modo costruttivo. Si privilegiano più informazioni sulle campagne di solidarietà promosse da star del cinema piuttosto che della musica, omettendo il lavoro silenzioso ma vitale di decine di organismi haitiani ed internazionali che lavorano quotidianamente per limitare le conseguenze di un terremoto che, secondo gli ultimi dati avrebbe provocato la morte di 200.000 persone, e che già lavoravano ad Haiti prima del terremoto. Le dure critiche di Medici senza Frontiere contro l’amministrazione statunitense per la gestione degli aeroporti è solo uno degli episodi che stanno costellando questa vicenda.

E’ una questione di volontà politica, la costruzione di una cooperazione basta sul mutuo rispetto e rispetto della sovranità. Cuba indubbiamente è all’avanguardia su questo campo in particolare nell’assistenza medica e nell’ educazione. La presenza cubana da 12 anni nell’isola, conta oggi di circa 500 operatori sanitari, oltre alle centinaia di haitiani che hanno studiato medicina nelle università cubane, rappresenta oggi un potenziale importante sia per le necessita dell’ emergenza sia per la creazione di infrastrutture permanenti in questi settori vitali per il paese. Domenica scors, è arrivato nell’ isola una equipe di 64 operatori sanitari specializzati in epidemiologia per predisporre un piano per prevenire il diffondersi di epidemie nelle zone circostanti i presidi sanitari ed ospedali. Cuba coopera con Haiti dal 1998 nell’ambito del Programma Integrale di Salute, conosciuto in altre regioni del mondo mediante il quale più di 6090 collaboratori cubani (medici, paramedici tecnici di attrezzature ad alta tecnologia) hanno garantito più di 14 milioni di visite e 225 mila operazioni chirurgiche.

Nonostante il silenzio dei mass media su questa cooperazione dal basso, sembra che l’importanza del lavoro cubano incominci ad essere presa in considerazione anche dal altri paesi. Il governo norvegese, ha stanziato una donazione di 885000 dollari, al governo cubano per sostenere la brigata medica presente ad Haiti. La necessita di una realpolitik della amministrazione Obama nei confronti di Cuba viene chiesta da Steve Clemons, editore del blog The Washington Note, in un commento pubblicato sul sito della CNN (3), nel quale sostiene che gli “USA dovrebbero riconoscere gli aiuti prestati da Cuba ad Haiti e togliere il governo dell’isola caraibica dalla lista dei paesi terroristici.” Clemons descrive gli ultimi anni dove Cuba ha dimostrato di essere un paese che “dispone di un personale medico sperimentato per risponder a disastri naturali. Dopo l’urgano Katrina, che colpì New Orleans ed il sud del Mississipi, Fidel Castro offrì un aiuto di squadre di soccorso di 1600 persone che compongono la “Brigata medica Henry Reeves”, il nome di un medico statunitense che lottò nella guerra d’indipendenza cubana. Come era logico aspettarsi, gli USA rifiutarono l’offerta nel settembre del 2005.
Poco dopo, nell’ottobre del 2005, la Brigada di Reeves, fu inviata per prestare gli aiuti medici necessari in Kashmir a causa del terremoto che scosse la regione montagnosa dell’ Himalaya. Stati Uniti ed Europa inviarono equipe di medici in Pakistan, ognuno con un accampamento base per un mese. I cubani installarono sette accampamenti come base principale e 30 ospedali da campagna nella regione dei fondamentalisti islamici del Pakistan, una nazione con la quale Cuba non aveva relazioni diplomatiche. Oggi, i cubani ed i pakistani hanno ambasciate nelle rispettive capitali. Bruno Rodriguez, il nuovo ministro degli esteri di Cuba, che allora era deputato, guidò la missione e visse sulle pendici montagnose del Pakistan per un anno intero. L’equipe mediche cubane sembra abbiano lavorato in modo costruttivo e positivo con il personale degli Sati Uniti ed Europa, e questo tipo di collaborazioni, anche se informali, potrebbero fomentare fiducia per promuovere relazioni dopo una paralisi durata decenni”.

Gli auspici di Steve Clemons però non trovano riscontri nella realtà. L’amministrazione Obama ha rinnovato anche per quest’anno l’inclusione di Cuba nella lista di paesi che darebbero protezione al terrorismo, giustificando la misura con argomentazioni arcaiche e fantasiose (4). Insomma, nemmeno una tragedia dantesca come quella haitiana fa riflettere l’amministrazione americana. Con Obama o con Bush le uniche possibili relazioni con gli USA sono solo quelle con paesi che accettano il loro diktat. Le parole di un esponente del governo cubano quando afferma che “noi ad Haiti non diamo ciò che abbiamo in più ma condividiamo quello che abbiamo” suonano stonato a Washington. Del resto basta ricordarsi la frase detta da un dirigente di una multinazionale del petrolio americana, con motivo della invio di combustibile a basso costo da parte della CITGO la multinazionale del Governo venezuelano alle popolazioni povere statunitensi, il quale replicò dicendo “noi non siamo un ente di beneficenza”. Se questa sarà la politica, quella delle leggi di mercato, che riuscirà ad imporre gli Stati Uniti anche ad Haiti, il terremoto continuerà nel tempo a mietere vittime.

(1) http://www.rebelion.org/noticia.php?id=99218

(2) http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-95350ac5-2594-41cd-95e7-4ce8e38babcf.html

(3) http://edition.cnn.com/2010/OPINION/01/14/clemons.haiti.cuba.us/index.html#cnnSTCText

(4) http://it.peacereporter.net/articolo/19873/Cuba%2C+Obama+nella+lista+nera+dell%27Havana


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LUCIO UTURBIA.MURATORE DELL’ANARCHIA (VIDEO)

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Gara  Muratore pensionato. Da bambino perse tutto il rispetto per l’autorità. La sua vita è un susseguirsi di contrabbando, rapine, militanza clandestina, rifugio a perseguitati e falsificazione di denaro e di documenti per aiutare cause rivoluzionarie. Pianificò affondare gli Stati Uniti. Organizzò una truffa miliardaria ad una delle principali banche del mondo. Era ricercato da polizie di diversi paesi ed ha conosciuto il carcere. E’ anarchico. Rivendica la responsabilità delle persone. Si definisce ricco, lo definiscono irriducibile.

 

Nella foto: Lucio Iturbia (a sinistra) con lo scrittore Iñaki Egaña

Testo di Fermin Munarriz

 Lei ha 79 anni per nelle sue conferenze le sale sono piene di giovani

Si, perché le idee che porto sono necessarie e alla gente piace quanto dico. E’ facile cambiare il governo, però sappiamo disgraziatamente dove ci porta. La soluzione non viene dai governi, verrà dai noi stessi, se saremo responsabili, senza credere ne in chiese, in partiti o in governi…

Ci troviamo in una grave crisi: cresce la disoccupazione, il capitalismo diventa sempre più selvaggio, però la classe operaia sembra che contempli la situazione…Cosa sta succedendo?

Abbiamo molti più mezzi di una volta, abbiamo anche più libertà però dobbiamo insistere su questa idea necessaria che è la responsabilità. Per me, è perdere il rispetto a ciò che si deve perdere. Bisogna perdere il rispetto a questi capoccia imbecilli che quanto più hanno più vogliono, che non sanno fare altro che accumulare mezzi economici ma che poi non sanno utilizzarli.

Per quale ragione un giovane di oggi dovrebbe impegnarsi in una lotta contro il sistema?

Perché è necessario. La vita non è solo pane. L’essere umano è ciò che è per quello che fa. E la gente giovane deve sapere che non si tratta solo di lavorare, si tratta anche di vivere, di condividere, di creare.

Com’era lei da bambino?

Da bambino ero un rivoltoso e mi davano multe da cinque pesetas. Mia madre non poteva pagarla ed allora mi portavano castigato a piantare alberi o in carcere a Tudela. Questa fu la mia fortuna perché non dovetti fare nessun sforzo per perdere il rispetto a tutto quanto era stabilito. Per questo noi poveri abbiamo una ricchezza se sappiamo utilizzarla. Abbiamo il diritto di perdere il rispetto a questa società idiota. E non sono contro la ricchezza e l’intelligenza, sono contro il mal ultilizzo.

Fin dall’adolescenza ha conosciuto celle, caserme, carceri. Ricorda quante volte è stato arrestato o detenuto?

Mah, quando ero giovincello ho fatto….il carcere di Cascante, che era un fienile, quello di Tudela, che già era un carcere di professionisti, quello di Bera de Bidasoa e quello di Pamplona. Poi in Francia, sono stato anche qui in altre quattro o cinque carceri, però per me questo è stata un ricchezza. Se io dovessi iniziare nuovamente la mia vita rifarei le stesse cose.

Come fu il primo contattato con l’anarchismo

Il mio primo contattato fu in Francia, quando ci arrivai come disertore. Però già allora avevo avuto una piccola esperienza: A Valcarlos io avevo lavorato nel contrabbando. Ed io dico che tutti i contrabbandieri erano anarchici perché era gente che aveva perduto il rispetto all’autorità: la Guardia Civil ci vigilava per anche noi li vigilavamo per poter contrabbandare….

Ed a Parigi iniziò la vita militante nell’anarchismo..

All’inizio facevamo espropri (assalti a banche a mano armata) perché non c’era altro rimedio. Noi non abbiamo avuto ne ministri, ne deputati, ne industriali che ci abbiano aiutato. Noi anarchici facevamo gli espropri come potevamo, però io non considero un eroe quello che prende un mitra, come facevo io, incoscientemente. Puntavi il mitra ad un impiegato di una banca perché ti desse il denaro, d’accordo, però per me non era eroismo, è che non si poteva a fare in altro modo. Quando scoprimmo che potevamo fare altre cose attraverso le falsificazioni, tirai un sospiro perché io non ho ucciso nessuno però potevo essere morto o potevo uccidermi. Era pericoloso.

Che cos’è l’eroismo per lei oggi?

Per me, l’eroismo è non essere d’accordo con questa società di capoccia imbecilli, che non meritano nessun rispetto, perché bisogna essere degli imbecilli per avere i mezzi che hanno e non sapere utilizzarli. Avete visto come l’Europa trema dopo i fatti della Grecia perché non c’altro rimedio in questa società, in certi momenti, che perdere il rispetto ed anche utilizzare la violenza. Disgraziatamente non c’è altro rimedio che utilizzarla. Il timore alla Grecia è dovuto a questi gruppi di anarchici; no serve essere milioni. Tremano perché la società è molto fragile.

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