Brothers: ovvero l’(est)etica del cinema
Quando, nel 2004, la Zentropa di Lars Von Trier produce il lungometraggio di Susanne Bier, la guerra in Afghanistan ha appena compiuto tre anni. Il mondo è stato sconvolto dall’attentato al WTC, che ha svelato la pericolosità di un terribile nemico del lontano Medio Oriente: Al Qaeda. All’indomani dell’11 settembre, l’amministrazione Bush dichiara guerra ai taliban: vengono inviati in Afghanistan migliaia di uomini, le truppe si stanziano in ogni angolo del Paese, per convincere il mondo che riusciranno a estirpare il male del terrorismo e che la democrazia attecchirà presto nel terreno accidentato di quella remota nazione. Ciò che è seguito all’invasione, dal 2001 a oggi, è una insensata odissea bellica della quale non riusciamo a vedere la fine, nonostante le sincere promesse del presidente statunitense Barack Obama. Nonostante il neoeletto generale della NATO, Stanley McChrystal, abbia fatto della riduzione dei morti civili un punto di forza della sua strategia. Nonostante la comunità mondiale si sia più volte pronunciata contro la sedicente missione di pace condotta dagli USA e dai loro più fidi alleati.
La regista danese parte da un dramma familiare condiviso per costruire una storia che fa della guerra in Afghanistan non solo lo scenario reale della tragedia, ma anche il pretesto per criticare quel conflitto e insieme dimostrare i devastanti effetti della violenza sulla psiche umana e le ripercussioni nella vita privata di un uomo che ha vissuto la guerra in prima persona. Michael, padre affettuoso e marito amorevole, parte in Afghanistan per conto di una missione delle Nazioni Unite, non prima però di essersi riconciliato col fratello minore Jannik, appena uscito di prigione. Durante una sopralluogo in elicottero, Michael e i suoi compagni vengono colpiti e precipitano in un lago. La loro morte viene data per scontata e comunicata alle rispettive famiglie in Danimarca. Per Sarah e le sue bambine la notizia della morte di Michael è un fatto sconvolgente e insopportabile che getta un’ombra scura sulla loro vita, fino a quel momento perfetta. Da sempre relegato al ruolo di pecora nera, Jannik dimostrerà alla famiglia del fratello di essere un uomo capace di prendersi cura degli altri e di assumersi delle responsabilità che vanno oltre il suo grado di parentela con la cognata e le nipotine. Tra lui e Sarah nascerà una profonda amicizia che costringerà entrambi a interrogarsi sulle loro sorti, segnate dalla prematura scomparsa di Michael, e sul bisogno di superare insieme il dramma, facendo affidamento l’uno sull’altra. Il rapporto tra i due è giocato sulla presenza-assenza di Michael, sulla necessità di nutrire un sentimento di appartenenza reciproca per esorcizzare l’angoscia che alberga in loro, così desiderosi, eppur timorosi, di tornare alla vita.
La versione diretta da Jim Sheridan, regista molto attento alle problematiche sociali e familiari, traduce un’opera cinematografica molto complessa, non tanto sul piano estetico (l’originale infatti rispetta appieno i dettami della dottrina Dogma 95, ndr), quanto da un punto di vista puramente etico, perché ciò che interessa a Sheridan è mostrare quanto può essere doloroso il ritorno a casa di un soldato sopravvissuto agli orrori della guerra. I brødre danesi diventano brothers americani, figli di un padre devastato dall’alcol e divorato da un becero orgoglio patriottico, direttamente proporzionale all’animosità che nutre verso il secondogenito. A Grace, la moglie del soldato, spetta il difficile compito di occuparsi delle sue due bambine e di gestire un rapporto sempre più intimo con il cognato.
Nei due film, la guerra è analizzata nel compiersi delle sue estreme conseguenze e come causa della disintegrazione dell’io. è il demone che corrode Michael/Sam dall’interno, che lo priva della fiducia nel prossimo e della possibilità del riscatto. La sua capacità di amare la sua famiglia è annichilita dal senso di colpa per aver ammazzato il suo compagno durante la prigionia, e la gelosia che prova nei confronti del fratello, sospettato di essere andato a letto con la moglie, è frutto della paura dell’altro e del suo sentirsi inadeguato nella veste di marito e di padre irreprensibile. La figura rassicurante e protettiva della moglie/madre – che nella versione americana si chiama Grace, “grazia” – funge da contraltare alla disperazione allucinata del marito/padre, che non riesce a ritrovare un equilibrio emotivo e morale nemmeno in seno alla sua famiglia.
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KURDISTAN SENZA TREGUA
Torna sulle prime pagine dei giornali il conflitto kurdo-turco. I 26 (o 24 a seconda delle fonti) militari turchi morti in una serie di attacchi simultanei sferrati dai guerriglieri del PKK contro diversi obiettivi delle forze di sicurezza nella zona di Hakkari hanno fatto gridare a una nuova recrudescenza del conflitto. In realtà la guerra non è mai cessata, le operazioni dell’esercito turco non sono mai diminuite. Anzi, da agosto si susseguono bombardamenti in tutta la zona al confine con Iraq e Iran e spesso e volentieri gli F-16 turchi sono entrati nel Kurdistan iracheno colpendo non tanto o non solo le basi del PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ma soprattutto villaggi facendo molte vittime civili di cui nessuno parla.
Gli attacchi di ieri hanno suscitato reazioni molto forti, comprensibilmente. A parte il presidente della repubblica, l’islamico Abdullah Gul, che ha promesso “vendetta” e altro sangue, è stato il BDP (Partito della Pace e Democrazia), cioè il partito dei kurdi a fare la prima dichiarazione. “Basta – si legge nel comunicato – con la guerra. E’ tempo che le armi tacciano e si realizzino le condizioni per favorire la pace”. Parole che il BDP va ripetendo da anni ormai. In questo sostenuto dal PKK che (è bene ricordarlo) ha osservato un cessate il fuoco unilaterale fino al 15 giugno di quest’anno. Cioè fino a dopo le elezioni politiche che hanno visto kurdi e sinistra turca eleggere ben 36 deputati al parlamento turco. Quello che è successo dopo questo risultato serve a contestualizzare anche l’attacco di ieri, al quale i turchi hanno risposto con una nuova offensiva aerea in nord Iraq.
Uno dei 36 deputati, Hatip Dicle (in carcere), è stato privato del suo mandato per un ‘reato’ (lui che era già stato deputato con Leyla Zana e aveva già fatto 10 anni di carcere) di natura ‘terroristica’. Cinque deputati sono attualmente in carcere. Al giuramento, dopo un boicottaggio durato tre mesi e mezzo, si sono presentati in 30. Da marzo a oggi sono finiti in carcere qualcosa come ottomila tra amministratori locali kurdi, attivisti per i diritti umani, militanti del BDP con l’accusa di essere in qualche modo legati al PKK. Dal 2009 (anno della vittoria dei kurdi alle amministrative) sono sotto processo oltre quattromila politici kurdi. Dal 27 luglio il presidente del PKK Abdullah Ocalan (in carcere dal 1999 sull’isola di Imrali) non può vedere i suoi avvocati. Un divieto imposto dopo che per mesi uomini del premier Recep Tayyip Erdogan hanno incontrato il leader kurdo per concordare “protocolli di pace” poi gettati nel cassetto.It’s about elections – stupid
This week 21 years ago the IRA announced its “complete cessation of military operations”. It was a momentous decision that came after many years of intense and difficult hard work
UN MILIONE PER IL NEWROZ
Oltre un milione di persone ha celebrato il Newroz, il capodanno kurdo, nelle città kurde della Turchia. Decine di migliaia