PRIGIONIERI MAPUCHE IN SCIOPERO DELLA FAME
L’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) è molto preoccupata per le possibili conseguenze di salute per i prigionieri politici Mapuche nelle carceri di Concepción e Temuco che da lunedì 12 luglio sono in sciopero della fame a tempo indeterminato, con la sola assunzione di liquidi. Le richieste dei prigionieri politici sono in primo luogo la fine dell’applicazione della cosiddetta legge antiterrorismo (legge 18.314) del periodo della dittatura militare di Pinochet, la fine dei doppi processi militari e civili per lo stesso reato, la fine dell’utilizzo dei cosiddetti testimoni “senza volto”, la fine della tortura e delle confessioni estorte con la violenza, la fine dell’uso eccessivo della detenzione preventiva e infine la smilitarizzazione delle comunità e zone mapuche.
Secondo la Commissione Etica contro la Tortura del Cile (CECT), attualmente nel paese ci sono 57 prigionieri politici mapuche (tra cui due minori di età), ma se si includono le persone trattenute con misure di detenzione preventiva si arriva a 96 prigionieri politici. La stessa CECT ha poi documentato l’uso massiccio della tortura contro i prigionieri mapuche. Nonostante nel 2005 il Cile sia stato condannato dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani per l’uso della giustizia militare contro civili, attualmente sette prigionieri Mapuche del carcere di Concepción sono sotto processo sia militare sia civile per lo stesso presunto reato. Gli imputati mapuche continuano inoltre ad essere giudicati in base alla legge antiterrorista emessa durante la dittatura militare del generale Pinochet nonostante la manifesta e ripetuta contrarietà di diversi organi delle Nazioni Unite secondo cui è inammissibile l’applicazione della legge antiterrorista nelle questioni riguardanti richieste di carattere sociale.
I prigionieri mapuche in sciopero della fame chiedono processi giusti, senza l’utilizzo dei cosiddetti testimoni “senza volto”, le cui identità restano ignote agli avvocati difensori e agli stessi imputati non permettendo quindi la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni dei presunti testimoni. Anche la pratica della detenzione preventiva, che grazie a costanti rinvii di processo mantiene gli imputati in carcere per periodi anche di due anni, è, come sottolinea la Corte Interamericana per i Diritti Umani, non una misura eccezionale ma ormai pratica comune anche quando non sarebbe di fatto necessaria.
L’APM sostiene le richieste dei prigionieri politici mapuche e chiede al governo cileno del presidente Sebastian Piñera di applicare correttamente e incondizionatamente la Convenzione ILO 169, la Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite sui Diritti delle popolazioni Indigene, di osservare le raccomandazioni degli inviati speciali delle Nazioni Unite per gli Affari Indigeni Rodolfo Stavenhagen prima e James Anaya ora e di rispettare le indicazioni provenienti dalle passate sentenze della Corte Interamericana per i Diritti Umani.
Fonte: http://www.gfbv.it/2c-stampa/2010/100714it.html
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Boris Pahor, scrittore triestino sloveno è un fiume in piena. A 97 anni racconta, racconta, senza mai stancarsi, senza mai perdere una volta il filo del ragionamento che ci tiene a fare, per ribadire che il fascismo è iniziato prima della salita al governo di Mussolini. Anche per questo quando lo scorso dicembre il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza (Pdl), gli voleva conferire la cittadinanza onoraria, Boris Pahor ha declinato l’invito. Ha ritirato invece quello che gli è stato conferito dall’associazione “Liberi e uguali”.
Cominciamo da qui. Perché ha rifiutato il riconoscimento del sindaco?
Quando ho saputo che volevano darmi un riconoscimento, ho saputo anche che il testo conteneva la mia sofferenza nei campi di concentramento tedeschi. Allora ho scritto al signor sindaco che lo ringraziavo per l’idea, solo che la mia vita non è stata segnata solo dal campo di concentramento tedesco. Prima ancora c’è stata la mia gioventù, segnata drammaticamente dal fascismo. Ho perduto un mucchio di anni perché la lingua slovena era proibita e io non ce l’ho fatta a fare il passaggio dalle elementari slovene alla quinta italiana. E non perché non fossi capace da un punto di vista intellettuale, ma perché non potevo diventare italiano per forza. Il regime voleva che tutta la popolazione risultasse italiana (gli sloveni, noi del Carso e del litorale sloveno, e quelli dell’Istria e della Croazia). Hanno cambiato nomi e cognomi alla gente in maniera che noi di fatto risultassimo spariti. Per farla breve, ho detto al sindaco: “io la avverto prima perché non voglio che lei mi dia il riconoscimento senza nominare il fascismo. Altrimenti lo rifiuterei”. Tutto là, insomma. Poi il sindaco, parlando di questo con i rappresentanti sloveni (qui ci sono due società che si interessano alla nostra cultura, una piuttosto di sinistra, l’altra piuttosto diciamo democratico-cattolica), ha deciso risposto che pretendevo di formulare io la motivazione. ‘A caval donato non si guarda in bocca’, ha detto. Al che non posso che rispondere che se mi avessero dato un cavallo l’avrei accettato, ma non posso accettare che si dica che sono stato in un campo di concentramento tedesco tralasciando la mia gioventù che mi è stata praticamente rovinata, non l’ho avuta io la gioventù.
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