CRIMINALIZZARE IL DIALOGO, IL CASO PIEDAD CORDOBA – Guido Piccoli
Spesso anche a sinistra, in quella che si ritiene “pura e dura”, vengono guardati con sussiego i difensori dei diritti umani così come gli “onesti”, anche siano politici e amministratori, che cercano con sincerità la soluzione dei conflitti basandosi sui principi di giustizia. Magari perché non sbandierano ideologie precise. Magari perché sono ritenuti “battitori liberi” o “cani sciolti”. Quindi poco affidabili. Spesso ci vuole del tempo perché sia apprezzata la loro azione. Occore che siano criminalizzati, o peggio eliminati. Entrando nel merito, qualcosa del genere sta succedendo in questo periodo in Colombia alla senatrice Piedad Cordoba e all’ex sindaco di Apartadó, Gloria Cuartas. La prima, un’esponente da sempre del Partito Liberale, una formazione che, prima della crisi degli ultimi anni, è stata al governo della Colombia da più di un secolo e mezzo, alternandosi al Partito Conservatore. Quindi non una comunista. E lo stesso dicasi della Cuartas, diventata sindaco del maggiore centro di una regione, l’Urabà, prima sotto il dominio politico-elettorale del Partito Comunista Colombiano e poi sotto il terrore dei paramilitari, nati e cresciuti proprio in Urabà. Le due si trovano adesso ad essere indagate come collaboratrici delle Farc. Il Procuratore Generale della Nazione, nominato da Uribe, vuole non solo arrestare la Cordoba, ma anche inibirla per 18 anni da ogni carico politico. Rischia l’arresto anche la Cuartas. La prospettiva, che era persino immaginabile durante gli 8 anni di presidenza Uribe, potrebbe concretizzarsi adesso sotto la presidenza di Santos, tronfio del successo militare che ha portato all’eliminazione del Mono Jojoy. Per accusare la Cordoba e la Cuartas basta la lampada di Aladino, ad uso e consumo dei governo colombiano, dei famosi computer di Raúl Reyes (in attesa che si comincino ad usare quelli del Mono Jojoy, che già la polizia colombiana annuncia ghiottissimi) e qualche profugo delle Farc, disposto a firmare qualunque confessione pur di evitare l’ergastolo nei fatti o l’estradizione negli Usa. La criminalizzazione verso queste due donne coraggiose, così come altri attivisti umanitari o politici saggi, è comprensibile: infastidiscono il potere di Bogotà più di tanti reparti guerriglieri. Contro questi ultimi lo stato colombiano ha mostrato di sapere come neutralizzarli contando su un enorme vantaggio militare, tanto da far credere di poter giocare al gatto col topo. Contro le denunce interne e internazionali della Cordoba e della Cuartas può solo rispondere con delle montature giudiziarie. Tutti coloro che sono partigiani di una soluzione politica al conflitto colombiano devono alzare la voce di protesta contro questa criminalizzazione, stupida e violenta.
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I fratelli minori – il nuovo libro di Enrico Palandri
E’ uscito in questi giorni per Bompiani “I fratelli minori”, il nuovo romanzo di Enrico Palandri. Veneziano, Palandri ha lasciato l’Italia nel 1980 e dopo il successo di Boccalone (romanzo di una generazione, quella del ’77 ma anche di quella successiva e un po’ precursore come sostiene qualcuno del concetto di moltitudine negriana). Nei suoi libri come nella sua biografia personale si incrociano ricerca e un lavoro intenso sul sé, sulle relazioni fra persone, sull’andare e venire, sullo stare abbastanza bene ovunque ma mai benissimo in alcun posto. I fratelli minori è un po’ la conclusione di questo percorso di ricerca. Una fine dove trionfano le persone, e soprattutto le persone implicate le une nelle altre. La storia è su due livelli temporali, gli anni ’70 e gli anni 2000. I due fratelli Martha e Julian (un po’ inglesi e un po’ italiani) figli di un famoso cantante d’opera veneziano, scelgono l’una di cambiare identità per evitare il peso del padre (anche Martha vuole cantare opera) e l’altro – il fratello minore – cercherà tutta la vita di ‘evitare’ gli altri. Il ’77 e l’Italia degli anni di piombo entrano nel personaggio di Giovanni (fidanzato di Martha). Ma è il ragionare sull’identità, sull’esilio, sugli altri il cuore del libro. Perché sono le questioni con cui si dibatte Palandri da anni. “Ho iniziato questo libro – dice lo scrittore – diversi anni fa. Mi sono accorto che avevo scritto più o meno con la stessa voce, rivolgendomi a un nucleo di temi abbastanza simili tra di loro fin da un altro mio libro, “Le pietre e il sale. Voglio che il romanzo sia autonomo, – aggiunge – però per me è un po’ la conclusione di un percorso cominciato per me quando sono andato in Inghilterra nel 1980”.
Andare in un luogo diverso ha permesso anche di continuare a ragionare su quanto accaduto nel tuo passato, negli anni ’70.
Sì. I miei sono libri che hanno a che fare con lo spatrio, il fallimento degli anni ’70, il superamento di questo fallimento. Ma non come il superamento proposto in Italia, cioè sostanzialmente con la figura del pentimento e del ravvedimento. Io non mi sono né pentito né ravveduto, io mi sono continuato. Credo che il pentimento sia una brutta figura perché tende a nascondere il percorso che hai fatto, tenta di rinascere non sulla storia ma su un altro piano. E di questo non mi fido. Non che l’altro piano non esista, la metafisica è sempre qualcosa che accompagna ed è parallela. Ma non credo che si possa uscire dalla storia per andare nella metafisica. Per questo il pentimento come pura morale che si oppone a ciò che hanno prodotto le circostanze, le classi sociali, i conflitti, non mi interessa. Purtroppo questa è stata la figura con cui si sono chiusi gli anni ’70. Io penso che noi siamo stati sostanzialmente la prima generazione che usciva da Yalta, non solo in Italia, in Inghilterra e siamo stati bloccati dal compromesso storico, cioè dai custodi di Yalta, il partito comunista e la Democrazia cristiana che erano i custodi dell’accordo siglato nel secondo dopoguerra. Sia da destra che da sinistra hanno visto nei movimenti qualcosa di inaccettabile perché andava da un’altra parte, anche se era la stessa cosa che accadeva in Inghilterra, in Francia, in America. Ma qui è stato tutto legato alla storia del terrorismo che invece era un fatto minore, legato molto alla storia del comunismo e non dei movimenti, in cui si poteva passare dai movimenti ma per disperazione, per sfiducia nella società, nella possibilità di cambiare, di essere nella società. Nel terrorismo c’era proprio quell’atto disperato che ho cercato, nel libro, di rendere nel personaggio di Giovanni. Non voglio dire nulla in generale sul terrorismo, ma ho cercato di avvicinarmi alle motivazioni del fallimento personale, di esposizione alla differenza sociale che è un tema che ricorre un po’ in tutto in libro. Mi è interessato molto analizzare come i personaggi che ho costruito sentono la propria condizione sociale e quella degli altri e come questi cambiamenti di status hanno un effetto profondo nella vita sentimentale, quando pensano di innamorarsi, nei revanscismi, in quello che si trascinano. C’è come una storia sociale privata che è una specie di biografia del singolo.
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