BOMBA A ANKARA, PKK NEGA COINVOLGIMENTO
Con un comunicato secco il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha smentito oggi ogni coinvolgimento nell’attentato di ieri a Ankara.
Il comunicato aggiunge che chi cerca e insinua collegamenti tra queste azioni che colpiscono i civili e il PKK lo fa perchè vuole creare risentimento nei confronti della popolazione kurda e in ultima istanza dunque vuole colpire i kurdi.
In precedenza il BDP (Partito della Pace e della Democrazia) aveva denunciato “azioni che colpiscono il diritto alla vita di ciascuno” e aveva chiesto al governo “chiarezza nella conduzione delle indagini, evitando un linguaggio contradditorio e sgradevole come quello usato subito dopo l’attentato di Ankara”.
Ieri sera in un attacco armato, non ancora rivendicato (come del resto quello di Ankara) sono rimaste uccise quattro donne che viaggiavano su un’auto nei pressi di una scuola di polizia a Siirt. Una quinta vittima è stata proprio uno studente della scuola di polizia.
Una bomba è esplosa questa mattina nella capitale turca, a Kizilay, quartiere del centro e sede di molti edifici governativi e militari. Tre i morti, una quarantina i feriti, cinque dei quali gravi. Difficile dire chi è responsabile di questo attacco anche se le autorità turche hanno puntato subito l’indice contro i guerriglieri kurdi del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).
Certo, da due mesi, nel colpevole silenzio internazionale, la Turchia sta conducendo una vera e propria pulizia ‘etnica’ nei confronti dei kurdi, bombardando villaggi e montagne (anche in Nord Iraq, con il silenzio per ora dei kurdi iracheni, maggiori partner commerciali della Turchia in questo quasi-dopo guerra) e arrestando ormai una media di trenta, quaranta persone al giorno. In un mese oltre 300 persone, esponenti del partito BDP (partito della pace e della democrazia, 36 deputati eletti ma che ancora stanno boicottando il parlamento tra le altre cose per chiedere il rilascio di 6 deputati) ma anche militanti e attivisti per i diritti umani sono stati arrestati. Negli ultimi sei mesi il BDP ha visto mandare in carcere quasi 1400 dei suoi dirigenti e membri. Il mese scorso a una manifestazione di scudi umani un consigliere provinciale del BDP Yildirim Ayhan, è stato ucciso dai militari. Soltanto domenica i deputati di Istanbul sono stati attaccati mentre manifestavano per la pace. Di Abdullah Ocalan, il leader kurdo incarcerato nell’isola di Imrali dal 1999, non si hanno più notizie dal 27 luglio, giorno dell’ultima visita dei suoi avvocati.
Il PKK è stato indicato come il responsabile dell’attentato di oggi a Ankara, ma si tace, convenientemente, il contesto di repressione e violenza in cui sono costretti a vivere i kurdi.
Comunque, in assenza di rivendicazioni, la storia insegna che è sempre meglio aspettare.
Quello che invece merita attenzione è il ruolo di protagonista che il premier islamico Recep Tayyip Erdogan si sta ritagliando in medio oriente e non solo. Erdogan sta andando in giro nei paesi della primavera araba a promuovere il “modello” Turchia. Un modello di governo islamico, è bene dirlo alto e chiaro. Certo, il tipo di islam compiacente e moderato (finora, ma fino a quando?) che piace all’occidente. E in effetti il ruolo che per l’occidente e gli Stati uniti deve svolgere è proprio questo: rimpiazzare gli ormai obsoleti e ‘scomodi’ regimi mediorientali con un regime islamico ‘moderato’. Per questo si avvicina alle opposizioni ma in maniera del tutto strumentale.
Inoltre la Turchia deve rimpiazzare Israele e assumere il ruolo di ‘capo sub-contractor’ e ‘braccio armato’ degli Stati uniti. Questa è una delle ragioni principali di questo braccio di ferro in corso tra Israele e Turchia. E Erdogan gioca la carta della maggior possibilità che ha la Turchia (e il suo governo musulmano) di stringere buone relazioni con i paesi dell’area. In altre parole la Turchia si propone come cavallo di Troia nella regione al servizio, ovviamente degli USA. Naturalmente per conquistare il consenso dei paese dell’area deve mostrarsi ostile nei confronti di Israele, super sostenitrice della causa palestinese, sostenere la Siria per quello che riguarda le alture del Golan. Dunque il braccio di ferro è per conquistare il ruolo di fratello preferito degli USA, anche se poi Israele e Turchia sono fratelli gemelli e in conflitto di interessi nell’area ma anche contro la gente di quest’area.
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LA STORIA DI ÖZGÜR
Orsola Casagrande. Diyarbakir.«Senti questo odore? E’ l’odore della guerra. Ti prende alla gola, è ovunque ». Il giovane annusa l’aria e invita a fare lo stesso. La guerra ha un odore. Agre, intenso. È l’odore lasciato dagli F16 che sorvolano la città in continuazione. È l’odore delle camionette militari, della polvere della strada di questa città tormentata. Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco, più di un milione e mezzo di abitanti (centinaia di migliaia sono profughi interni).
Il giovane parla con un tono di voce sereno. E’ calmo. E ci si chiede come faccia a esserlo visto che ogni giorno ormai potrebbe venire da Ankara la notizia che ha perso il suo appello e potrebbe presto trovarsi in carcere condannato a 12 anni per “propaganda per un’organizzazione illegale”, vale a dire il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). “No, non sono andato alla manifestazione, l’altro giorno – dice – perché mi hanno vietato di partecipare a manifestazioni politiche per cinque anni”.
La guerra ha suoni così come ha odori. Non è solo il suono degli aerei da guerra diretti verso il Kurdistan del Sud (cioè la regione del Kurdistan in Iraq). E non è nemmeno solo il suono degli elicotteri delle forze armate e di polizia che volano bassi sopra le case. Né il rumore dei carri armati, e se ne possono vedere molti in questi giorni a Diyarbakir.
La guerra ha i suoni che sono le parole spezzate di coloro che ne raccontano gli orrori.
Özgür Da?han (Sipan Amed) aveva 27 anni. Era un guerrigliero del PKK. Ha perso la vita in uno dei recenti scontri. La sua fotografia è su una credenza del salotto di questa casa dove il dolore è tangibile. Gulistan e Mehmet Da?han si siedono sul divano lei, sulla poltrona lui. Con loro altre due figlie. “Özgür è il nostro primo figlio”, dice Gulistan lanciano uno sguardo alla foto. I suoi occhi si riempiono di lacrime. Lei è una madre. E’ già abbastanza doloroso per una madre sopravvivere a suo figlio. Ma a Gulistan Da?han è stato negato anche di vedere suo figlio per l’ultima volta. “Non hanno voluto farmi vedere il corpo – dice – hanno detto non avrei potuto reggere la vista di quel corpo, di quello che gli avevano fatto”. Guarda la foto ancora una volta e aggiunge: “Ma ho visto cosa gli hanno fatto, ho visto le foto sui giornali”. Ha smesso di mangiare il giorno che ha visto quelle immagini. “La vita – dice – mi ha abbandonato il giorno in cui mio figlio è morto. Ora sto mangiando un po’, ma solo perché ho altre figlie e devo continuare a vivere per loro”.
Le immagini di Özgür ormai senza vita raccontano una storia terribile, quella di una violazione indicibile, di un’offesa su un giovane già morto. Il corpo di Özgür Da?han è stato infatti orrendamente mutilato dopo che il giovane era già morto. “Non so – dice Gulistan Da?han – come un uomo possa fare una cosa simile a un altro uomo”. Rivolge uno sguardo a suo marito, Mehmet, e gli dice di parlare. Lui lo fa, in un tono pacato di voce. Eppure quello che sta dicendo è angosciante. Si tratta di un racconto di brutalità, di violenza disumana. Ma comincia come la storia di uno dei tanti bambini cresciuti in Kurdistan che non poteva rimanere seduto e guardare la violenza e la brutalità che venivano imposte al suo popolo.
“Özgür non è stato indifferente a quello che vedeva attorno a lui. – Dice Mehmet Da?han – Quando era un bambino, alla scuola elementare, un nostro parente, che era un comandante guerrigliero ha perso la vita. Per Özgür la presenza di un ‘martire’ in famiglia ha significato un suo aumento di interesse per la storia kurda e la storia del movimento di liberazione kurdo. Lui aveva studiato ingegneria elettrica, ma il suo vero interesse era la storia. Ha letto tutti i libri disponibili sulla storia kurda, dalle origini, la rivolta di Seik Said [1925. Ndr], il massacro di Dersim [1938. Ndr]. Nell’ultimo periodo che ha passato a casa ha fatto una ricerca molto completa su questo tema. Quando tornava a casa in compagnia dei suoi amici, andavano nella sua stanza, chiudevano la porta e so che parlavano del PKK, della lotta di liberazione”.
Özgür è entrato nel PKK quando aveva 20. Era un giovane sensibile che non poteva stare a guardare la sua gente, amici, parenti subire abusi costanti da parte delle autorità turche.
“Siamo riusciti a vederlo ancora una volta, dopo che era già entrato nel PKK. – dice Mehmet Da?han – Siamo andati in montagna per vederlo. Siamo rimasti 11 giorni. Lui è arrivato l’ultimo giorno della nostra permanenza. Ma ci ha detto che non sarebbe potuto rimanere con noi a lungo perché aveva delle mansioni da svolgere”.