I NIPOTI DI MUKHTAR – Fortress Europe

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Viaggio a Benghazi, domenica 13 marzo 2011

Aytam ha 26 anni e sulla maglia ha ancora spillato il cartellino dei volontari del campo di addestramento di Benghazi. Sopra c’è scritto in arabo: “Base dei martiri del 17 febbraio. Noi non ci arrendiamo, vinciamo o ci sacrifichiamo”. È appena uscito dal campo militare a bordo di una Mazda rossa e ci fa segno dal finestrino di salire, che ci dà volentieri uno strappo fino al tribunale. Lui nelle brigate è entrato dopo la morte del fratello Mohamed, che di anni ne aveva appena compiuti 28. L’hanno ucciso durante il funerale di alcuni ragazzi ammazzati nei primi giorni della rivolta qui a Benghazi. La folla stava andando al cimitero, quando i cecchini sui tetti hanno aperto il fuoco. Era il 19 febbraio, quel giorno sono morti 15 ragazzi. Mohamed l’hanno colpito alla testa i cecchini appostati sul palazzo di là dalla strada.

Da quel giorno, Aytam ha incollato sul parabrezza della Mazda una foto del fratello. E accanto ha messo una stampa di Omar el Mukhtar, il famoso e amato leader della resistenza libica contro la colonizzazione italiana negli anni Venti. Sono passati 80 anni da quando nel 1931 El Mukhtar venne catturato dai fascisti di Graziani, condannato proprio qui a Benghazi e quindi impiccato. Eppure ancora oggi è uno dei simboli più diffusi della rivoluzione dei ragazzi del 17 febbraio. La sua immagine è stampata sulle vecchie bandiere del tempo di re Idris. Tre strisce orizzontali, una nera, una verde e una rossa, che hanno mandato in pensione le bandiere verdi monocolori di Gheddafi, scomparse dalla città insieme a tutti i simboli della dittatura, comprese le gigantografie di Gheddafi che prima erano affisse ovunque. Adesso la sua faccia compare soltanto nelle feroci caricature disegnate dai ragazzi lungo i muri delle strade delle manifestazioni.

Gli stessi muri testimoniano il massacro accaduto a Benghazi tra il 15 e il 20 febbraio scorso. Soprattutto nelle vicinanze del campo delle milizie di Gheddafi. Le pareti esterne delle case sono crivellate di colpi. Sono normali abitazioni, non obiettivi militari, ma sono state ridotte a un groviera dalle raffiche delle milizie. Nei fori scavati dai proiettili c’entra un dito. In queste strade in meno di una settimana sono morte almeno tre o quattrocento persone. Saranno tutti ricordati come martiri per la liberazione del paese. Ma uno di loro è già ritenuto un eroe. Si chiama Mahdi Ziu. Un uomo sulla quarantina, sposato e padre di due bambine, che il 20 febbraio ha caricato la sua macchina di esplosivo e si è fatto esplodere davanti al cancello del campo militare delle milizie di Gheddafi, intorno al quale il massacro andava avanti da tre giorni. Grazie a quell’azione, alla fine della giornata del 20, i ragazzi della rivoluzione sono riusciti a prendere possesso del campo, la Katiba in arabo, a mettere in fuga i mercenari, liberare i militari arrestati per avere rifiutato di sparare sulla folla e a incendiare tutto.

Quel giorno in piazza c’era anche Mohamed. È uno studente di ingegneria industriale, 23 anni, nato a Vancouver e cresciuto in Canada fino all’età di cinque anni. Lui era un vicino di casa di Mahdi Ziu. Il giorno prima erano andati insieme in macchina alla manifestazione. E quel giorno nessuno si aspettava che avrebbe fatto quello che ha fatto. Insieme a Mohamed, che oggi è volontario al centro stampa di Benghazi, entriamo nelle rovine del campo dei miliziani di Gheddafi. Qui per anni si è consumata la repressione e la tortura di un popolo. Di tutto questo oggi non ne rimane traccia.
Il fuoco ha bruciato tutto. Le pareti sono annerite dalle fiamme. E i pavimenti sono ricoperti da chili di cenere di migliaia di documenti bruciati per sempre con i loro segreti. Quando usciamo dalla Katiba, fuori troviamo la carcassa dell’automobile con cui il vicino di casa di Mohamed, Madhi Ziu, si è fatto saltare in aria davanti al cancello. Sui muri di recinzione della vecchia base, ci sono scritti i nomi di altri ragazzi uccisi negli scontri. Dall’ingresso continuano a arrivare i curiosi. Ragazzini e famigliole in gita. Vengono a vedere i luoghi profanati del potere. Senza neanche scendere dalla macchina. Il finestrino abbassato e la musica alta con i nuovi pezzi rap appena incisi con i testi delle nuove canzoni della rivoluzione di Benghazi.

La Cirenaica non ha più paura, indietro non si torna. Visto da qui Gheddafi è un uomo finito. Se non fosse che continuano a arrivare pessime notizie dal fronte militare, con due disfatte dei rivoluzionari in due giorni, e la perdita dei due importanti pozzi petroliferi di Ras Lanuf e Brega. Una perdita molto grave anche secondo alcuni dei 13 membri del consiglio di transizione degli insorti. Il giudice Kamal Hodheifa ad esempio, è preoccupato, dice che senza i due pozzi appena persi, non ci sono riserve in Cirenaica per più di dieci giorni. Su questo punto però Mustafa Ghariani non è d’accordo. Lui la fa semplice. La Libia ha sempre importato il carburante raffinato in Italia e all’estero. E può continuare a farlo anche adesso, è soltanto un problema di liquidità. Ma su questo stanno lavorando alacremente i delegati del consiglio transitorio. Hanno già incassato il riconoscimento della Francia e l’apprezzamento dell’Unione europea, degli Stati Uniti e della Lega Araba. E adesso puntano a intascare i fondi sequestrati all’estero al regime di Tripoli. Tutto è destinato a cambiare molto in fretta secondo Ghariani, che nel consiglio degli insorti è un po’ un tuttofare, forte della sua carriera di uomo d’affari e logista. Anche perché, aggiunge, l’economia europea, già in crisi non potrebbe sopportare un blocco petrolifero in Libia, motivo per cui – secondo lui – presto prenderanno più apertamente le parti del popolo libico.

Secondo lui, Gheddafi ha perso per sempre l’appoggio del popolo e non può governare un paese con quindicimila miliziani. Certo, a Tripoli la repressione è stata troppo violenta perché la gente possa tornare di nuovo in piazza. Hanno perso tra 200 e 300 persone in un giorno e molti non hanno nemmeno potuto fare il funerale, perché hanno fatto sparire i cadaveri. E poi si dice che abbiano portato via i feriti dagli ospedali, e non si sa niente degli arrestati. Ecco perché nella capitale la gente non è nelle condizioni di manifestare di nuovo, è terrorizzata dall’idea di subire un’altra durissima repressione. E poi senza internet da una settimana, è quasi impossibile organizzarsi. Così a Tripoli si limitano a uno sciopero passivo. Restano a casa, non vanno a lavorare, le scuole sono chiuse e i negozi pure. E poi c’è questa leggenda degli spari nella capitale che si sono sentiti all’alba di qualche giorno fa. Si è trattato di una rivolta interna? Di un’esecuzione dei disertori? Di un colpo di stato? Nessuno lo sa, ma il dubbio che le milizie di Gheddafi possano implodere non è più da escludere.

Fonte: http://fortresseurope.blogspot.com/2011/03/i-nipoti-di-omar-el-mukhtar.html


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Era una noche cerrada como pocas. Apenas percibía las marcas que delimitaban la carretera. Paré en un restop de la autopista lleno de máquinas y estancias cerradas a prueba de asaltadores nocturnos con síndrome de abstinencia. Un café bien cargado. Cuando reanudé la marcha, una lluvia fina golpeaba el cristal del automóvil mientras la niebla se deslizaba por los bordes del camino.

Eché mano a la música para hacer más llevadero el viaje. Los kilómetros fueron cruzando monótonos, cargados de indiferencia. Hasta que llegó una tonadilla que me llamó la atención, recitada por un cantautor caribeño. La había oído alguna otra vez, sin atención, la canción más hermosa del mundo. Demasiado pretencioso para un título, demasiado engreída para ser una canción. Saltó la siguiente y, entre el piano de Antxon Valverde, la letra de Xabier Lete y la voz de Mikel Laboa, olvidé la traza de aquella balada porque lo hermoso acudía en euskara.

Pude recostarme cerca de la cárcel y dormir unos minutos antes de que la claridad de una brumosa y húmeda mañana me sacudiera el semblante, sin estridencias, con la tranquilidad de, una vez más, haber llegado hasta las puertas del presidio. Sin percances. Me hubiera gustado amanecer a tu lado, sentir tu perfume diluido en tu respiración, intuir tu sueño profundo y acariciar tu piel incipiente de arrugas. Recordé por un momento a Mikel Urdangarin cuando cantaba aquello de  “Zure bihotza nire neurrira nola egina dagoen”. Y me invadió ese desasosiego previo al encuentro que sólo con los años sabemos ocultar.

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