10 RAGIONI PER DIRE NO ALLA GUERRA IN LIBIA

Loading

Stop The War Coalition (la coalizione contro la guerra nata in Gran Bretagna per contrastare la guerra del Golfo del 2003) ha pubblicato 10 ragioni per dire NO all’intervento occidentale in Libia.
1. L’intervento violerà la sovranità della Libia. E questo non è solo un punto legale – anche se l’importanza del rispetto del diritto internazionale non deve essere dato per scontato se vogliamo evitare che le grandi potenze del mondo abbiamo luce verde in qualunque momento. Non appena la NATO comincerà l’intervento, il popolo libico inizierà a perdere il controllo del proprio paese e il futuro.
2. L’intervento può solo prolungare, non far finire la guerra civile. La “No-fly zone” non sarà in grado di fermare il conflitto e porterà a più spargimento di sangue, non meno.
3. L’intervento porterà a una escalation. Poiché le misure sostenute oggi non possono porre fine alla guerra civile, la richiesta successiva sarà per una presenza armata “totale” (aria, terra, mare) in Libia, come in Iraq – che incontrerà la stessa resistenza. In questo modo rischiamo decenni di conflitto.
4. Questa non è la Spagna nel 1936, quando non intervento significava aiutare i fascisti che, in caso di vittoria nel conflitto, avrebbe solo incoraggiare gli istigatori di una guerra più ampia – come è effettivamente stato. Qui le potenze che chiedono a gran voce l’azione militare sono quelle che già stanno combattendo una guerra più ampia in tutto il Medio Oriente e cercano di preservare il proprio potere a qualunque costo, anche se perderanno i loro alleati dittatori. Rispettare la sovranità della Libia è a favore della pace, non contro.
5. Siamo di fronte a una situazione simile a quella dell’Iraq nel 1990, dopo la prima guerra del Golfo. Allora, gli USA, Gran Bretagna e Francia hanno imposto no-fly zone che non hanno portato alla pace – le parti in conflitto hanno combattuto una guerra civile ancora più aspra nel ‘protetto’ Kurdistan iracheno. Una situazione che ha di fatto preparato il terreno per l’invasione del 2003. L’intervento può dividere Libia e istituzionalizzare il conflitto per decenni.
6. O è più simile alla situazione in Kosovo e Bosnia. L’interferenza NATO non ha portato alla pace, alla riconciliazione o a una vera libertà nei Balcani, al contrario ha portato a interminabili occupazioni corrotte.
7. Sì, tutto questo ha a che fare con il petrolio. Perché si parla di intervenire in Libia, ma non il Congo, per esempio? Chiedete a BP.
8. Ma ha anche a che fare con le pressioni da esercitare sulla rivoluzione egiziana – la più grande minaccia per gli interessi imperiali nella regione. Un presidio NATO, il vicino della porta accanto rappresenterebbe una base al meglio per esercitare pressione, ma, se necessario, anche per  un intervento, se la libertà egiziana dovesse crescere fino al punto in cui rappresenterebbe una sfida per gli interessi occidentali nella regione.
9. L’ipocrisia ha fatto scoprire le carte. Quando la gente del Bahrain si è sollevata contro il monarca sostenuto dagli USA ed è stata ammazzata e repressa per le strade, non si è parlato di intervento, anche se la sesta flotta degli Stati Uniti è di stanza lì e avrebbe senza dubbio potuto imporre una soluzione in breve tempo. Come il senatore repubblicano USA Lindsey Graham ha osservato il mese scorso: “Vi sono regimi che vogliamo cambiare, e regimi che non vogliamo cambiare”. La NATO interverrà sempre e solo per strangolare una vera rivoluzione sociale, non per sostenerla.
10. L’aggressione militare in Libia – chiamiamo le cose con il loro nome – sarà utilizzata per rilanciare la sanguinosa politica di ‘interventismo liberale’. A quella bestia non può essere consentito di risorgere dalle tombe di Iraq e Afghanistan.

Il sito di Stop the War Coalition qui


Related Articles

“LA RIVOLUZIONE TUNISINA INIZIO’ NELLE REGIONI E CONTINUA OGGI MOLTO ATTIVA”- Fahem Boukadous

Loading

Gara. Alma Allende. Tunisi. Fahem Boukadous è un giornalista che si trovava in prigione quando il popolo tunisino obbligò il

VENEZIA, 11-12 FEBBRAIO 2011. PROCESSI DEMOCRATICI DI SOLUZIONE DEI CONFLITTI.ESPERIENZE DI DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA.

Loading

L’11 e 12 febbraio 2011 a Venezia (SALA S. LEONARDO,  Rio Terà S. Leonardo, Cannaregio 1584) si svolgerà la seconda conferenza internazionale “Processi di Pace e Risoluzione dei Conflitti” promossa dal Centro Pace del Comune di Venezia. Questa conferenza si svilupperà su due assi: da una parte l’analisi dei processi (in atto o in fieri, e comunque allo stato unilaterali) di ricerca di una soluzione pacifica, basata sul dialogo, del movimento kurdo e della sinistra abertzale basca a un anno dalla prima conferenza veneziana, svoltasi nel novembre 2009. In quell’occasione la sinistra indipendentista basca (le organizzazioni di quest’area politica sono illegalizzate nello stato spagnolo dal 2002), il DTP kurdo (illegalizzato dalla Corte Costituzionale turca poche settimane dopo la conferenza), e il Sinn Fein irlandese hanno discusso e proposto percorsi di soluzione a conflitti che storicamente hanno caratterizzato, e caratterizzano, le vicende politiche  delle loro comunità nazionali  di riferimento e dei quali questi movimenti sono parte in causa. In quella conferenza la sinistra indipendentista basca ha reso pubblica la decisione politica (Declaracion de Venecia y Alsasua) concretizzatasi poi nel documento Zutik Euskal Herria! (In piedi Paese basco!). In questo documento il movimento politico basco ha scelto una strategia che porti a un processo democratico senza violenza né ingerenze per una soluzione del conflitto politico basco spagnolo. La soluzione del conflitto necessita ancora di un lungo cammino da percorrere, come dimostra il susseguirsi di eventi di questi ultimi mesi (comunicati di ETA che avallano la posizione della sinistra indipendentista, la dichiarazione di cessate il fuoco “permanente, generale e verificabile dalla comunità internazionale”, convergenza di organizzazioni politiche, sindacali e sociali basche a favore del processo democratico, arresti di dirigenti politici che avevano promosso questa iniziativa politica, iniziative legislative del governo spagnolo volte a rafforzare l’illegalizzazione della sinistra indipendentista, rifiuto da parte governativa a ogni dialogo. Il DTP kurdo ha presentato a Venezia le basi di quella che nel 2010 è venuta definendosi come ‘autonomia democratica’. Il cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) è stato esteso per consentire la creazione di condizioni favorevoli a un dialogo, ma l’esercito turco sta continuando le operazioni militari, anche se il governo ha ammesso che ci sono contatti con il leader kurdo incarcerato, Ocalan.

Il secondo asse sul quale si svilupperà questa seconda conferenza è invece quello delle pratiche. Nonostante i conflitti, i soggetti politici che rivendicano riconoscimento hanno accompagnato all’azione contestativa  pratiche di costruzione del comune. Sono esperienze limitate si dirà, ed è certo vero, visto che cercano di svilupparsi in contesto in cui la situazione politica attuale nega loro la possibilità di essere articolate. Però danno la misura del rilevante contributo che potrebbero offrire quando il processo democratico riuscirà a porre le basi di una dialettica non violenta. Essendo poi la problematica inserita nella questione identitaria, essa assume un interesse particolare vista l’attualità del dibattito sull’incontro/scontro tra culture. L’ispirazione ideologica di questi movimenti ha imposto storicamente un approccio articolato e approfondito del senso di appartenenza a una comunità. Ma ha anche delineato un approccio critico alla forma ‘stato’ immaginando una ipotesi di organizzazione sociale che sviluppi forme più partecipative e decentrate non solo internamente ma anche in rapporto con altre comunità.
Questi movimenti pur essendo protagonisti di conflitti laceranti hanno saputo delineare una proposta politica inclusiva, che riconosce la pluralità del mondo su un piano di parità. Esperienze di partecipazione che hanno anche altre espressioni in contesti dove non esiste un conflitto identitario ma che hanno come elemento comune il riconoscimento della diversità. Trovare un nesso tra cultura autoctona, partecipazione democratica nel determinare le scelte economiche e sociali e rapporto con altre culture, partendo dall’esperienza municipale è un percorso sul quale costruire percorsi di pace e giustizia. 

 

PROGRAMMA

Ivan Marquez assesses state of Colombian peace negotiations

Loading

Havana- Peace and political normalization in Colombia are now up in the air. Ivan Marquez is member of the secretariat

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment