Terremoto a Haiti: non è una questione ideologica

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Haiti: non è una questione ideologica

Il terremoto a Haiti impone scelte immediate, e a medio e lungo termine che si basino in questo caso sulla memoria storica. Scelte immediate per l’immane distruzione che il terremoto ha provocato. L’aiuto e sostegno alla popolazione devono imporsi come prioritari ed obbligo dei paesi che stanno facendo a gara per inviare aiuti a costituire un coordinamento che per una volta almeno tenesse da parte diatribe ideologiche e politiche. Eppure sembra che questa ovvia constatazione non sia proprio una priorità. Su “La Repubblica” di qualche giorno fa Lucio Caracciolo nell’ articolo “Nelle braccia dell Occidente” evidenzia come la tragedia haitiana possa essere per gli Usa un rilancio nella competizione per la riconquista di un ruolo centrale nella politica internazionale. Per Caracciolo lo “slancio economico militare” mostrato in queste ore dagli USA verso Haiti si propone di raggiungere tre obiettivi: non ripetere gli errori di Bush mostrati in occasione dello tsunami del 2004 in Asia e nell’urgano Katrina in casa  propria dove apparve un” immagine di una superpotenza egoista e declinante”. “Secondo: dare profilo specifico alla sua visione – finora piuttosto retorica – degli Stati Uniti come potenza capace di esprimere la propria egemonia non attraverso l’esibizione o peggio l’impiego della forza, ma raccogliendo intorno a sé ampie coalizioni internazionali. E assumendosi la responsabilità di guidarle”. “Terzo: impedire che forze nemiche o inaffidabili prendano piede a Haiti. Un classico Stato fallito, di fatto non governato da nessuno. Haiti non è la Somalia, certo. Ma i recenti corteggiamenti venezuelani al presidente Préval, sostanziati da forniture energetiche e progetti infrastrutturali, miravano a calamitare Haiti nell’Alba, l’asse antiamericano guidato da Caracas e L’Avana.”  Se questi saranno gli obiettivi principali di Washintong, per gli haitiani la storia di miseria e sfruttamento secolare si ripeterà. Perché ad accrescere il disastro umano e sociale provocato dal terremoto, c’è stata in questi anni una politica che non ha tenuto conto delle esigenze della popolazione. Dopo le vicende che hanno coinvolto il governo guidato da Bernard Aristide, con il suo sequestro ed espulsione, ( vedi “Haiti prima del terremoto. Un paese dimenticato”), la comunità internazionale che si è posta come garante della situazione politica interna al paese,  ha imposto un modello sociale ed economico che impedisce qualsiasi possibilità di sviluppo interno. Haiti può trovare un cammino per affrontare gli immani problemi presenti nella sua società, la più povera dell’ America Latina, se il progetto di indipendenza sociale ed economica del continente latinoamericano, che tra molte contraddizioni cerca di andare avanti, si concretizzerà sempre più. Ed è su questo aspetto che si gioca la scommessa sul presente e futuro haitiano. Gli aiuti dell’ Occidente sono obbligati visto i decenni di rapina a cui il paese è stato sottoposto. Anche perché c’è chi propone ad Haiti come scrive lo stesso Caracciolo “forniture energetiche ed infrastrutturali” a prezzi inferiori a quelli di mercato e chi vede Haiti come il luogo ideale per impiantare nuove zone franche per lo sfruttamento intensivo della mano d’opera a costo zero. Questa immagine nascosta in modo strumentale, basandosi sulla giusta emozione immediata per le conseguenze del terremoto, impedisce di guardare oltre locheremo patinato dell’informazione ufficiale. . Un paese come Cuba ad esempio che ha molto da insegnare a livello mondiale, almeno sula prevenzione ed intervento in caso di disastri naturali, è stato il primo paese a prestare aiuti concreti immediati alla popolazione. Come scrive M. L. DE GUEREÑO corrispondente del gruppo editoriale spagnolo Vocento “con la maggioranza degli ospedali distrutti o inservibili, senza che l’aiuto internazionale fosse iniziato, ad offrire assistenza sanitaria ad Haiti furono i 334 medici e paramedici cubani che da 12 anni collaborano nell’isola caraibica. Il governo comunista inviò altri 30 specialisti con materiale di emergenza dopo il terremoto. A Port au Prince si trovavano 152 operatori sanitari cubani nel momento del terremoto. La loro prima reazione fu di mettere in piedi due ospedali da campagna nella loro residenza perché l’edificio dove lavoravano era crollato. Con l’apertura di due ospedali della capitale quello del Seguro Social e il Nacional, il personale medico cubano tornò a prestare servizio. Alla luce di lanterne, i chirurghi cubani realizzarono 19 interventi anche se altre 26 persone di cui 9 bambini  a causa delle terribili ferite sono morti.” 


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PJAK, the Kurds and Iranian elections

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During the last weeks much has been said about Iran, because of the rageful demonstrations and riots that followed the contested results of the presidential elections, seriously challenging the establishment and government of the Islamic Republic of Iran. But few or nothing has been said, in western media, on the effects of this electoral process on the Iranian Kurdish population, amounting to an esteemed number of 5 millions people (on a total Iranian population of about 70 millions), and mostly concentrated in the north-eastern regions of the country, the ones bordering Turkey and Iraq. Moreover, it should be kept in mind that the Iranian Kurdish region still holds a special symbolic value for the whole of Kurdish population: it was here, in the city of Mahabad, that the first Kurdish republic was established between 1945 and 1946, with the support of Soviet Union.

4 Sì, un unico No: la battaglia è appena iniziata

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INFOAUT. Il Sì vince in tutti i 4 quesiti referendari. E’ evidente il carattere doppiamente politico del risultato: su un primo livello in quanto dà la misura della rilevanza e importanza delle 4 poste in gioco su cui si era chiamati a votare; un secondo livello che boccia, poche settimane dopo le amministrative, l’operato del governo in carica. I conti dimostrano che la maggioranza assoluta degli italiani e delle italiane non è disposta a trattare su questioni fondamentali come il diritto ai beni comuni primari come l’acqua e la “sicurezza” (quella reale di poter vivere senza il terrore di essere contaminato dalle radiazioni per millenni, non quella sbandierata strumentalmente agendo sulle paure).

Qualcuno potrà anche chiamare in causa l’effetto-Fukushima, colpevole di aver spinto milioni di persone a “pensare con la pancia” ma il risultato addirittura superiore (per quanto di poche virgole) dei due quesiti relativi alla privatizzazione dell’acqua e alla possibilità di farne sopra profitti come fosse una qualsiasi altra merce mostra invero il processo di consapevolezza e lungo corso che ha portato a questo risultato. A partire da una raccolta firme che ha attraversato l’ultimo anno e mezzo.

Proprio il risultato equivalente delle 4 questioni deve essere letto come bocciatura esplicitamente politica dell’operato del governo, punito alle urne da un parte del proprio stesso elettorato. Segno che c’è una percezione diffusa di un sorpasso del limite e della decenza che non può più essere tollerato. E’ in qualche modo, anche qui, il voto di una cittadinanza “indignata”, per quanto nel nostro paese ancora non disposta a riconquistarsi spazi e modi della politica direttamente nelle piazze, ancora (troppo) fiduciosa nel risultato e peso delle scelte fatte nel segreto delle urne.

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