Intifada in musica – il rap palestinese (di Lazyproduction)
![]()
Molti di noi, guidati da cattiva informazione stampata e pessima tv, sono abituati a vedere le popolazioni del mondo arabo come una massa informe di estremisti lobotomizzati da religione e tradizioni arcaiche. Nel sentire comune non percepiamo le differenze culturali e sociali che intercorrono tra un iracheno e un egiziano, tra un giordano e un saudita, ma siamo attentissimi a distinguerci, invece, come italiani, da altri popoli a noi vicini, come i tedeschi o i francesi. Non parliamo poi di tutta l’abbondante serie di banalità e luoghi comuni sul conflitto mediorientale e la questione palestinese. Il refrain più comune, in questo caso, si può riassumere con la frase: “Le colpe non stanno da una parte sola”. E si giustifica in questo modo lo sterminio di massa avvenuto a Gaza con la scusa del diritto di Israele alla difesa del suo territorio (termine improprio: sarebbe come dire che l’Italia si può annettere pezzi di Francia, Germania o Siria perché nell’antichità erano territori dell’impero romano) . Poco importa che quello sionista sia uno degli eserciti meglio armati del pianeta (possessore di armi atomiche illegali), mentre il popolo palestinese vive da anni in un campo di concentramento a cielo aperto, privato dei beni primari di sussistenza. Di questo popolo martoriato, senza pace e senza diritti conosciamo le organizzazioni più in vista, Olp, Al Fatah e ovviamente Hamas. Tutte, con diverse strategie politiche, si oppongono da anni all’occupazione dei territori destinati allo Stato palestinese, mai nato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Ma non vorrei dilungarmi troppo in considerazioni politiche, dato che questo post intende occuparsi di qualcosa di diverso. Una nuova forma di rivolta si sta estendendo nei Territori, un nuovo linguaggio è portato avanti dai figli dell’occupazione. I ragazzi palestinesi del XXI secolo non suonano l’oud, ma rappano.
“Rapper e band hip hop spuntano come i funghi, ogni mese si sentono nomi nuovi, in Cisgiordania e anche a Gaza. I giovani palestinesi hanno ripreso a piene mani dalla vicenda umana e artistica dei rapper americani, osservando quanto nasce nelle periferie più povere ed emarginate delle città statunitensi, nei ghetti per neri e latinos e hanno trasformato questa forma di ‘ribellione in musica’, così lontana dalla loro tradizione, in un movimento politico e sociale”.
Proprio Gaza, uno dei luoghi più disastrati del pianeta, è un centro importantissimo per il rap palestinese. Tra scantinati e sale improvvisate si svolgono sempre più frequenti concerti ed esibizioni di giovani che non desiderano altro che raccontare la loro vita: l’occupazione israeliana, l’embargo economico, i valichi chiusi in faccia agli ammalati gravi, ma anche la mancanza di libertà individuale, le imposizioni della religione, i condizionamenti della famiglia. Hamas lascia fare, i suoi attivisti non intervengono: ma quando i testi dei rapper mettono in discussione l’ordinamento sociale, allora fanno la voce grossa.
Anche in Cisgiordania e Gerusalemme l’hip hop si sta trasformando da subcultura giovanile a movimento politico, capace di superare le barriere territoriali, creando così un fronte di protesta e ribellione che unisce i ragazzi palestinesi sotto occupazione e dei campi profughi a quelli che vivono in Israele. E le sue potenzialità sono vaste.
All’hip hop locale il commentatore palestinese Omar Barghuti, noto anche come critico d’arte e coreografo, rimprovera la mancanza di genuinità. I giovani palestinesi, sostiene, “hanno fatto copia e incolla di questa forma d’arte della protesta che viene dall’America, senza svilupparne una propria”. Riconosce però lo spessore politico del fenomeno: “Le potezialità politiche e sociali sono enormi. Soprattutto nelle zone arabe di Israele ormai non è più possibile organizzare un raduno politico senza invitare un rapper, il potere di questa musica sui nostri giovani è eccezionale”, afferma. C’è chi parla di “Intifada hip hop”, una rivolta dei giovani contro l’occupazione israeliana destinata sostituirsi a quella della moschea di al-Aqsa, che molti palestinesi considerano un fallimento.
Se è vero che i riferimenti culturali di questa musica sono decisamente americani, non sono per nulla d’accordo con Omar Barghuti circa il copia incolla che i giovani palestinesi avrebbero fatto. Scegliendo l’hip hop come linguaggio hanno comunque mantenuto viva al suo interno la tradizione araba. Basta ascoltare le basi dei pezzi. Vi si trovano campionamenti dei più conosciuti autori arabi classici, da Oum Kulthum a Fairuz, da Abdel Halim Hafez a Mohammed Abdel Wahab. È positivo, inoltre, che il rap prodotto in Palestina sia più vicino al rap americano delle origini, che trattava tematiche sociali legate alla vita di tutti i giorni, piuttosto che al rap contemporaneo, fatto di catene d’oro, gangster e puttanoni. Insomma, i rappers palestinesi hanno riportato l’hip hop alle sue radici che, in quella terra straziata dal dolore, è tornato a essere poesia di strada.
Nel 2008 la regista arabo-americana Jackie Reem Salloum ha prodotto un film documentario sulla scena hip hop palestinese intitolato “Slingshot Hip Hop”, che è stato selezionato per il Sundance film festival. Vi compaiono, tra gli altri, Sabrina DaWitch, i Dam, PR e Mohammed Farra di Gaza, WE7 di Nazareth, Mahmud Shalaby e le ragazze Arapayat di Akko. Dice la regista: “Attraverso l’hip hop i giovani palestinesi rafforzano la loro identità nazionale, ribadiscono i principi comuni e provano a scardinare le forme più oppressive dell’ordinamento sociale. È un’esigenza diffusa che ho raccolto ovunque, a Beddawi, Shatila, Burj al Barajne e negli altri campi profughi palestinesi in Libano, dove un paio di settimane fa ho proiettato il film”. Il documentario sta facendo il giro del mondo, ottenendo ovunque grande consenso.
Centro nevralgico di tutta la produzione rap palestine sono gli Underground Studio di Nazareth, gestiti dal gruppo WE7. Da studio di provincia, gli Underground sono divenuti una meta nella regione per tutti i rappers e hanno acquisito fama a livello mondiale. Sono stati visitati, tra gli altri, da Nizar del gruppo americano the Philistines, dal rapper egiziano Zaki, dal danese Marwan e dalla diva britannica Shadia Mansour.
Related Articles
“GAZTA” LIBERO DOPO 31 ANNI
![]()
Era il 1980 e lui aveva 22 anni quando venne arrestato dalla Guardia Civil assieme ad altre otto persone. Oggi,
BIN LADEN IL FRANKENSTEIN CREATO DALLA CIA – Enrico Piovesana
![]()
Peacereporter. Figlio di un magnate delle costruzioni di origine yemenita (Mohammed Awad Bin Laden) e di una donna di origine siriana, Osama nasce il 10 marzo 1957 a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. All’età di 13 anni perde il padre. A 17 si sposa con la prima delle tre mogli, una ragazza siriana, sua parente. Il matrimonio a una così giovane età fa parte – per il suo carattere di protezione dalla corruzione e dall’immoralità – della rigida educazione religiosa che gli viene impartita. Compie tutti i suoi studi nelle scuole della città di Gedda, fino a conseguire la laurea in Management ed Economia all’università Re Abdul Aziz.
In questo periodo si accosta al movimento della “Fratellanza musulmana” e, negli anni che seguono, inizia a stringere sempre più stretti contatti con numerosi gruppi di integralisti islamici. Oltre che ad accumulare una discreta fortuna occupandosi della gestione dell’impresa paterna. Abbandonerà tale attività nel 1979 quando, a seguito dell’invasione dell’Afghanistan da parte di truppe sovietiche, si dedicherà ad aiutare i fratelli musulmani contro i “senzadio” comunisti. Inizia infatti ad investire le proprie ricchezze per reclutare volontari, e, in seguito, per addestrarli e per fornirgli le armi necessarie per combattere al fianco dei mujaheddin afgani. Crea così il gruppo del “Fronte di salvezza islamico”, potendo tra l’altro contare, oltre che sui propri fondi, anche sull’aiuto economico proveniente dagli Stati Uniti e sul appoggio della Cia (vedi sotto “Blowback”).
BILBAO: UN’ONDATA DI SOLIDARIETA CON I PRIGIONIERI BASCHI
![]()

Immagine ottenuta dalla webcam del Municipio di Bilbao, che mostra la calle Autonomia
E’ un tratto della cultura politica del Paese Basco la manifestazione di piazza. E quella di oggi rientra a pieno titolo tra le più numerose. Ancora una volta è Bilbao a “misurare”, come hanno scritto alcuni quotidiani spagnoli, l’adesione alla rivendicazione del rispetto dei diritti politici dei 735 detenuti e detenute politiche rinchiusi in decine carceri soprattutto in Spagna ma anche in Francia. C’era attesa per questo appuntamento. Attesa se si sarebbe svolta o meno, visti i divieti e proibizioni all’ultima ora a cui avevano abituato l’Audiencia Nacional, il tribunale speciale spagnolo in questi anni di “proscrizione” a tutto quanto odori a sinistra indipendentista. In questo caso, però, l’ennesima richiesta avanzata dalla Asociacion Victimas del Terrorismo, e supportata dal Partido Popular, non ha avuto esito. Il giudice di turno dell’ Audiencia Nacional, Pedraz non ha riscontrato nella piattaforma che ha organizzato la marcia un legame organico con organizzazioni ilegalizzate ne “la rivendicazione di un cambiamento della politica penitenziaria può essere identificata con apologia di terrorismo”. Insomma tutto faceva presagire che questa volta le arterie e piazze che dividono in due il capoluogo basco sarebbero state invase “fino a tracimare” da decine di migliaia di persone. E cosi è stato. Migliaia di persone che hanno dimostrato ancora una volta che al di là della identificazione o meno con le azioni delle persone detenute, la “questione dei prigionieri” rimane un aspetto determinante nella soluzione del conflitto basco spagnolo. Una sensibilità storica verso la detenzione politica che ha accompagnato in modi diversi la storia di questo paese per tutto il secolo scorso fino ai nostri giorni. Attesa c’era anche per cosa avrebbero detto le forze politiche Sinistra Indipendentista, Eusko Alkaratuna, Aralar Alternatiba e sindacali ELA LAB Ehne, Esk le principali organizzazioni della area progressista basca che, oltre ad aderire alla manifestazione, hanno anche sottoscritto l’Accordo di Gernika nel quale si chiede esplicitamente a ETA e Governo spagnolo di intraprendere un camino di soluzione pacifica del conflitto. Attesa c’era anche se ETA avrebbe “detto qualcosa” in questa occasione, quando sono settimane che politici e mezzi d’informazione annunciano “a breve” un comunicato dell‘organizzazione armata basca, meglio sarebbe dire IL comunicato, nel quale ETA rivelerebbe se accetta le esigenze contenute nell’Accordo di Gernika. In tal senso si è espresso il portavoce del Partido Socialista basco, Pastor, per il quale la manifestazione “sarebbe una buona occasione” per chiedere a ETA la fine della lotta armata. Ma gli esponenti delle forze politiche presenti alla manifestazione hanno evitato di pronunciarsi su altri argomenti che non siano quelli inerenti la necessita di un cambiamento della politica penitenziaria nei confronti dei detenuti baschi da parte del Governo spagnolo. Del resto, in Spagna la questione basca viene ormai percepita come incamminata verso una sua evoluzione e che la sinistra indipendentista presto o tardi tornerà ad essere protagonista anche in ambito elettorale e istituzionale. Per questo sia il quotidiano conservatore El Mundo sia quello filo socialista Publico, attribuivano alla manifestazione la funzione di “banco di prova” per la sinistra indipendentista. El Pais, da parte sua, ha riferito “in diretta” della manifestazione, fatto questo unico per questo riguarda una manifestazione della sinistra basca. Ma c’è anche chi ha manifestato la sua totale contrarietà a questa manifestazione soffiando sul fuoco del “conflitto perenne”. Cosi il quotidiano monarchico ABC titola “Marcia a Bilbao al grido di “senza amnistia non ci sarà pace” (sic), mentre per il presidente del Partido Popular del Paese basco, che appoggia il governo del Partito socialista nella Comunita Autonoma Basca, Antonio Basagoiti, la manifestazione di oggi a Bilbao “è tanto ripugnante come un atto a favore di stupratori detenuti”.

