BLACKWATER, MERCENARI IMPUNI E BEN PAGATI

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Democracy Now Il governo statunitense ha deciso di non intraprendere iniziative giudiziarie contro la compagnia militare privata Blackwater, per aver cercato di assicurarsi affari per al difesa nel sud del Sudan mentre il paese africano si trovava sottoposto a sanzioni economiche USA. BLACKWATER che da anni viene impiegata e pagata, per operazioni di “sicurezza” nelle zone di conflitto dove operano le forze militari statunitensi, è conosciuta  per le sue modalità di azione sbrigative come il 16 settembre 2007 in Iraq dove uomini della Blackwater uccisero 17 civili iracheni. Ha conferma della buona considerazione che gode anche nell’ amministrazione Obama, la compagnia privata militare statunitense ha ottenuto  nuovi contratti. 100 milioni di dollari per la custodia di installazioni della CIA in Afghanistan ed altri paesi e 120 milioni di dollari per al custodia di consolati statunitensi in due città afgane.  Una questione quella della sicurezza che trova motivi sempre più consistenti visto il l’ennesimo tragico disastro della guerra, soprattutto statunitense, in Afganistan. Oltre alle migliaia di vittime civili afgane  anche le forze di occupazione registrano constanti perdite. La Asociated Press informa che nel mese di giugno sono morti 76 soldati della forza di occupazione internazionale, dei quali 46 statunitensi.  Il maggior numero di vittime dall’inizio della invasione 9 anni fa. Nel luglio del 2009 i militari morti erano stati 75

 

 

 


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Intervista di Fermin Munarriz

Gara Fu militante clandestino del nord (militò in Iparreterrak (IK), organizzazione armata del Paese basco nord,  nata nel 1972). Venne arrestato ed incarcerato, scappò e venne nuovamente arrestato. Passò 17 anni nelle carceri francesi dove ancora ci sono 150 donne e uomini baschi. Per tre anni rimase in totale isolamento. Si dibatteva come un leone in gabbia ed arrivò a fare flessioni alle tre del mattino per combattere il freddo nella cella. Sentì odio però non si lasciò vincere. Ne piegare. Uscì e continuò a lavorare per la dignità di tutte le persone incarcerate. Oggi lavora in Emaus. E per il suo paese. Mantiene la sua coscienza “abertzale” intatta, Trasmette energia e determinazione. Sa che vincerà.

Il suo libro autobiografico si titola “la nuque raide” (La nuca eretta) perché un direttore di un carcere disse che lei non ha mai piegato la testa. Che cosa fa un prigioniero per non piegarsi?

E’difficile dirlo… Il carcere è disegnato per spezzare il prigioniero, però con alcuni non riescono. Nella mia casa ho appreso fin da piccolo che cos’è la dignità e, entrato in carcere, come militante sapevo perché ero là e che l’obiettivo della prigione era romperti. Per questo fui subito cosciente che anche là dovevo continuare ad essere io padrone della mia vita e non i carcerieri. Questa è la ragione per la quale ho resistito 17 anni senza piegarmi.

Come nacque la sua coscienza di sinistra e “abertzale”?

Da bambino appresi l’euskara a casa, però lo persi poco a poco nella scuola francese. A 15 anni i miei genitori mi dissero che dovevo recuperarlo e partecipai a dei corsi. Scoprì che l’euskara era qualcosa di incantevole. Ed in quel momento in Iparralde era abbastanza trascurato e molta gente lo disprezzava. La presa d’atto di quella situazione fu, forse, l’origine della mia coscienza nazionale.

D’altro canto, ha 17 anni entrai a lavorare in una fabbrica. Lì vidi che non ero rispettato come lavoratore e rapidamente nacque in me la coscienza di classe. Per questo, fin da giovane ho avuto una coscienza “abertzale” e di sinistra.

Perché decise di aderire e militare in Iparreterrak?

Con quanto ho spiegato prima il cammino era facile. IK esisteva e si presentava come una organizzazione che lottava per la liberazione nazionale e sociale. Per tanto, per me, entrarvi a far parte era un percorso naturale. Analizzavo le azioni di IK e pensavo che i suoi militanti avevano ragione. A Parigi non ascoltano ciò che i baschi di Iparrralde diciamo in modo legale per le strade, nelle manifestazioni…Non ascoltano niente: per tanto, è necessario rafforzare la nostra voce mediante piccole azioni affinché a Parigi ci ascoltino. Però una cosa è pensarlo ed un’altra è chiedersi “cosa faccio io”. E cos’ì entrai in IK, come giovane abertzale cosciente che desiderava contribuire con il proprio sforzo alla lotta.

Suppongo che questa è una decisione difficile: la lotta armata può significare il carcere, la morte….Lei ha conosciuto i lati più amari: diversi suoi compagni sono morti – Diddier Lafitte, incluso, al suo fianco (Diddier Lafitte venne ucciso l’1 marzo 1984 a Bayona da un poliziotto francese in una operazione nella quale venne arrestato Gabi Muesca )– e ha anche trascorso 17 anni in carcere..

Passa poco tempo è si è coscienti della gravità di una decisione come questa. Questo lo sappiamo e come “abertzales” siamo coscienti che il nostro obiettivo è vincere. Un giorno vinceremo però sappiamo che la lotta è lunga e che prima di allora si può incontrare la morte o il carcere. Tenendo in considerazione che diversi miei compagni sono morti e sono stati feriti gravemente, io poteri considerarmi fortunato di vere conosciuto solo la prigione: e dico fortuna perché, come persona e militante, ho appreso molte cose in carcere.

IK dimostrò che il conflitto basco non era una cosa solo di Hego Euskal Herria (nello stato spagnolo)?

Dimostrammo che una parte del popolo basco esiste nel nord, che Euskal Herria non sono solo le comunità del sud, ma anche del nord, che non esiste Euskal Herria senza Iparralde.

Perdura in Ipar Euskal Herria il patrimonio politico di IK?

E’difficile dire che grazie a noi è avvenuta la tal cosa..Ciò che esiste oggi è il lavoro di tutti. Non mi piace dare più importanza ai militanti di IK che, per esempio, ai professori di SEASKA (movimento per l’alfabetizzazione in euskara in Iparralde)..Tutti gli abertzale hanno la stessa importanza; e sappiamo che unendo tutte queste forze possiamo vincere.

Come euskaldunes (basco, colui che parla euskara) e come abertzales abbiamo conseguito insegnare al mondo che siamo baschi e che vogliamo essere solo baschi. Prima di IK molta gente diceva che quelli di Iparralde erano baschi però francesi. Non possiamo lasciare il nostro futuro in mano dei politici di Parigi o Madrid perché sappiamo che vogliono che il nostro popolo scompaia.

Come vede le relazioni tra gli abertzales del nord e del sud?

Stanno sempre più migliorando perché in questi ultimi venti anni si sono creati legami non solo nell’ambito politico, ma anche in quello culturale, in quello commerciale…che fanno si che ci conosciamo meglio. Per molto tempo, per la gente di qui, quelli dell’altro lato erano spagnoli, però poco a poco abbiamo dimostrato che siamo uguali: baschi. Per secoli siamo stati separati, però c’è qualcosa che ci unisce al di là di tutto: la nostra lingua e la nostra cultura. E’ caduto un tabù perché ci siamo conosciuti mutuamente. E penso che la nostra lotta deve rafforzare questi vincoli a tutti i livelli: tra i bambini, tra gli sportivi, tra i lavoratori….

Si dice che il razzismo è la paura a ciò che non si conosce. E vediamo, ad una altro livello, che ci è passato lo stesso: tra la gente di Iparralde ed Hegolade è esistita una “muga” (frontiera, confine) che ci ha impedito conoscerci per secoli. Credo che questa muga stia cadendo anche grazie al lavoro degli abertzales. Sono contento nel vedere che giovani di qua vanno nell’altro lato a studiare nell’Università o a lavorare…Così si costruisce Euskal Herria del futuro.

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