GUERRA DI LIBIA

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Mentre dalla Libia continuano ad arrivare notizie di morte, i governi NATO continuano ad azzuffarsi su chi deve comandare questa guerra.
Pubblichiamo questo articolo di Seumas Milne, giornalista dell’inglese The Guardian, che ci sembra molto lucido e condivisibile nella sua analisi. In Italia latitano (a parte qualche rara e apprezzata eccezione, vedi Manlio Dinucci) le analisi lucide e soprattutto non ipocrite su questa guerra. Aggiungiamo solo che forse meriterebbero qualche attenzione in più i movimenti del premier turco Recep Tayyip Erdogan. Proprio oggi (24 marzo) è in visita a Ankara il generale statunitense NATO James Stavridis (che è comandante dell’US European Command oltre che Comandante supremo del SACEUR, Supreme Allied Commander Europe, della NATO). La Turchia è impegnata nella promozione di se stessa come possibile mediatore di molte controversie soprattutto nel mondo arabo. Erdogan gioca la carta musulmana (unico paese musulmano della NATO, paese musulmano e quindi più affidabile per i paesi arabi) nella costruzione di questo ruolo internazionale (a casa continua a massacrare i kurdi, ma questo è il prossimo capitolo). E’ evidente  che l’attività frenetica di Erdogan in questi giorni (non dimentichiamo che la Turchia sta rappresentando gli interessi diplomatici in Libia di Italia, Australia e Gran Bretagna e forse gli USA dopo l’intervento turco per far liberare tre giornalisti del New York Times in mano agli uomini di Gheddafi) non è solo finalizzata a limitare i danni in Libia. I turchi hanno confermato oggi la disponibilità di inviare quattro fregate, un sottomarino e una nave di appoggio per rafforzare l’embargo sulle armi alla Libia. Ma è chiaro che Erdogan continua a lavorare per una soluzione diplomatica. Lo stesso, almeno a detta del ministro degli esteri Frattini (che giustifcava così l’assenza ieri di Berlusconi in aula per spiegare ruolo e compiti dell’Italia in questa guerra di Libia) starebbe facendo Berlusconi. E si sa, il premier italiano è grande amico del premier turco. Meglio osservare un po’ più da vicino ciò che i due ‘amici’ hanno in mente.

Non c’è niente di morale nell’intervento NATO in Libia
Seumas Milne, The Guardian
E’ come un vizio che non riescono a togliersi. Ancora una volta gli Stati Uniti, gli inglesi e altre forze Nato stanno bombardando un paese arabo con missili cruise e bombe che devastano bunker. Sia David Cameron che Barack Obama insistono che non è come in Iraq. Non ci sarà occupazione. L’attacco ha il solo scopo di proteggere i civili.
Ma otto anni dopo aver lanciato la loro devastazione “shock-and-awe” [“colpisci e stupisci”, altresì nota come operazione “dominio rapido”. NdT] di Baghdad e a meno di un decennio dall’invasione dell’Afghanistan, le stesse forze sono ancora una volta in azione contro un altro stato musulmano, incenerendo soldati e carro armati sul terreno e uccidendo civili nel farlo.
Sostenuti da una schiera di altri stati NATO, che hanno quasi tutti preso parte alle occupazioni di Iraq e Afghanistan, gli USA, la Gran Bretagna e la Francia si nascondono dietro a una foglia di fico araba, che ha la forma dell’aviazione del Qatar (che peraltro deve ancora arrivare),  per dare una qualche credibilità “regionale” al loro intervento in Libia.
Come in Iraq e Afghanistan, insistono che al centro dell’intervento ci sono motivi umanitari. E come nei due precedenti interventi, i media abbaiano per il sangue di un leader villano che è ormai una pantomima, mentre il cambio di regime sta rapidamente rimpiazzando l’obiettivo dichiarato della missione. Solo un solipsismo occidentale che considera normale invadere routinariamente il paese di altri popoli in nome dei diritti umani protegge i governi Nato da una sfida seria.
Ma la campagna sta già cadendo in pezzi. L’opinione pubblica si sta ribellando al massacro: negli USA, un cittadino su due si dice contrario all’intervento; in Inghilterra il 43 percento dice di essere contrario all’intervento  a fronte di un 35 percento che si dice d’accordo – un livello di malcontento senza precedenti per i primi giorni di una campagna militare inglese, compresa quella in Iraq.
Sul terreno, gli attacchi occidentali sono stati un fallimento visto che non hanno fermato la battaglia e le uccisioni, né hanno sottomesso le forze del colonnello Gheddafi; i governi NATO si stanno azzuffando su chi deve essere a capo dell’intervento; i ministri e generali inglesi si sono divisi sul fatto che Gheddafi sia o meno un obiettivo legittimo.
La settimana scorsa i governi NATO hanno rivendicato il sostegno della “comunità internazionale” grazie alla risoluzione ONU e a un appello della Lega Araba dominata dai dittatori. Al contrario, India, Russia, Cina, Brasile e Germania si sono rifiutati di sostenere la risoluzione dell’ONU e adesso criticano o denunciano i bombardamenti – come hanno fatto anche l’Unione Africana e la stessa Lega Araba. Come sostenuto dal suo segretario generale Amr Moussa, il bombardamento chiaramente è andato oltre gli obiettivi della no-fly zone. Attaccando le truppe del regime che stanno combattendo le forze ribelli a terra, i governi NATO stanno inequivocabilmente intervenendo in una guerra civile, spostando l’ago della bilancia in favore dell’insurrezione di stanza a Bengasi.
Cameron ha ribadito lunedì alla Camera dei Comuni che gli attacchi via aria e mare sulla Libia hanno impedito un “sanguinoso massacro a Bengasi”. La prova principale di questo massacro evitato è stata la minaccia di Gheddafi di non avere “pietà” nei confronti dei ribelli che si rifiutano di deporre le armi e di “cercarli casa per casa”. In realtà, nonostante tutta la brutalità del leader libico e la sua retorica stile Saddam Hussein, Gheddafi non era nella condizione di portare avanti la sua minaccia.
Considerato che le sue forze sgangherate non sono state in grado di riprendere città come Misurata o anche Ajdabiya quando i ribelli erano in ritirata, l’idea che sarebbero state in grado di catturare con rapidità una città di 70 mila persone arrabbiate e ostili sembra poco verosimile.
Ma dall’altra parte del mondo arabo, nel Bahrain armato dall’occidente, le forze di sicurezza stanno in questo momento portando avanti raid notturni contro gli attivisti dell’opposizione, casa per casa, e di decine di loro non si hanno più notizie mentre la dinastia di despoti continua a schiacciare nel sangue il movimento democratico. Venerdì scorso più di 50 manifestanti pacifici sono stati uccisi per le strade di Sana’a dalle forze governative dello Yemen sostenuto dall’occidente.
Lungi dall’imporre una no-fly zone per piegare il bellicoso regime yemenita, le forze speciali USA stanno operando nel paese a sostegno del governo.  Ma del resto, gli USA, gli inglesi e le altre forze NATO sono loro stesse responsabili di centinaia di migliaia di morti in Iraq e Afghanistan. La scorsa settimana più di 40 civili sono stati uccisi dall’attacco di un drone statunitense in Pakistan, mentre più di 60 sono morti in Afghanistan in un attacco aereo USA.
Il punto è che non solo l’intervento occidentale è volgarmente ipocrita. Il fatto è che i doppi standard (due pesi e due misure) sono parte integrale di un meccanismo di potere globale e dominio che reprime ogni speranza di un sistema internazionale credibile di protezione dei diritti umani.
Interventi umanitari a la carte, come questo in Libia, non sono certo basati sulla fattibilità o sul livello di sofferenza o repressione. Quello che interessa è sapere se il regime in questione è un affidabile alleato o meno. Ecco perché la dichiarazione che i despoti arabi sarebbero meno propensi a seguire l’esempio repressivo di Gheddafi come conseguenza di un intervento NATO è totalmente infondata. Stati come l’Arabia Saudita sanno molto bene di non correre il minimo rischio di diventare possibili obiettivi dell’occidente. A meno che non siano in pericolo di collassare.
Lungi dall’imporre una no-fly zone per piegare il bellicoso regime yemenita, le forze speciali USA stanno operando nel paese a sostegno del governo.  Ma del resto, gli USA, gli inglesi e le altre forze Nato sono loro stesse responsabili di centinaia di migliaia di morti in Iraq e Afghanistan. La scorsa settimana più di 40 civili sono stati uccisi dall’attacco di un drone statunitense in Pakistan, mentre più di 60 sono morti in Afghanistan in un attacco aereo USA.
Il punto è che non solo l’intervento occidentale è volgarmente ipocrita. Il fatto è che i doppi standard (due pesi e due misure) sono parte integrale di un meccanismo di potere globale e dominio che reprime ogni speranza di un sistema internazionale credibile di protezione dei diritti umani.
Interventi umanitari a la carte, come questo in Libia, non sono certo basati sulla fattibilità o sul livello di sofferenza o repressione, ma su quanto il regime che li porta avanti sia un affidabile alleato. Ecco perché la dichiarazione che i despoti arabi sarebbero meno disposti a seguire l’esempio repressivo di Gheddafi come conseguenza di un intervento Nato è totalmente infondata. Stati come l’Arabia Saudita sanno molto bene di non correre il minimo rischio di diventare possibili obiettivi dell’occidente, a meno di essere in pericolo di collassare.


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ETA: UN ANNUNCIO CHE VIENE DA LONTANO E GUARDA AVANTI

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La dichiarazione di ETA diffusa oggi dal quotidiano basco Gara era attesa da settimane.

Anzi, era il serpentone che faceva presenza nei discorsi dei politici e mass media spagnoli e baschi. Una questione che è stata posta da subito è quale novità rappresenti questa dichiarazione rispetto ad altri annunci di cessate il fuoco proclamati nel corso della storia dell’organizzazione armata.

Dal 1975 ETA considerava ineludibile la trattativa sulla base dell’Alternativa Kas, una sorta di processo costituente basco, per arrivare a una soluzione del conflitto. A più riprese veniva sottolineato come questo accordo avrebbe portato a una sorta di ibernazione della lotta armata.

Un aspetto fondamentale era che ETA si  considerava l’interlocutore del governo spagnolo e questa strategia politico-militare del conflitto portò Governo ed ETA a sedersi al tavolo delle trattative ad Algeri dal gennaio ad aprile 1989. Eta dichiarò una tregua unilaterale di 15 giorni per poi annunciare una “la creazione di un periodo di distensione nel conflitto, che propizi il dialogo assunto dalle parti”. La  tregua fu effettiva anche da parte del governo spagnolo.

Fallito il dialogo di Algeri bisognerà attendere il l’aprile del 1996, poco dopo l’elezione di José Maria Aznar, sfuggito miracolosamente a un attentato dell’organizzazione armata, per registrare una tregua “simbolica” di ETA, di una settimana, in occasione della presentazione dell’Alternativa Democratica, una proposta di soluzione al conflitto che, pur riaffermando il ruolo di “garante” per il gruppo armato rispetto a un negoziato sul diritto autodeterminazione del Paese basco, stabiliva che fossero i partiti e forze sociali basche a discutere i contenuti politici dell’accordo.

L’affondo a tutto campo del Governo Aznar contro la sinistra indipendentista, accompagnato da un giro di vite nella politica autonomista e una strategia militare di ETA che compie un salto attentando direttamente ai rappresentati politici del PSOE e del PP, portò alla stipula di un accordo tra la maggioranza delle forze politiche sindacali e sociali baschi, escluse le rappresentanze di PSOE e PP nonché di UGT e CCOO baschi, che si denominerà Accordo di Lizarra Garazi. Prendendo come riferimento il processo di pace in Irlanda del Nord, l’accordo poneva le basi un processo di pace basto sul riconoscimento del Paese basco come ambito decisione.  Una novità importante, perché l’iniziativa risiedeva nelle forze politiche e sociali basche. È in quedto contesto che ETA dichiara una tregua unilaterale il 12 settembre del 1998 che durerà fino al dicembre 1999. In questo periodo, le forze di sicurezza spagnole  francesi metteranno in atto una serie di operazioni sia contro ETA che contro le organizzazioni politiche della sinistra indipendentista. Anche l’accodo di Lizarra Garazi si concluse con una rottura, che però rese evidente come la strategia negoziale in cui ETA si presentava come soggetto  “garante”  fosse un argomento usato strumentalmente dal Governo spagnolo per affermare che non era possibile negoziare accordi politici “con una organizzazione terrorista”. Una constatazione che porterà una riflessione interna al movimento indipendentista basco che dopo anni di trattative segrete con esponenti del PSOE, sfocerà, nel settembre 2004, nella dichiarazione di Anoeta, dove la già allora illegalizzata Batasuna, annuncerà una proposta di dialogo su due tavoli: il primo tra ETA e il Governo per discutere di smilitarizzazione vittime e prigionieri baschi. Il secondo, politico, fra partiti e agenti sociali baschi.

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