SPIRIT E TOMAHAWK, IN LIBIA SI PREPARANO LE NUOVE GUERRE

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Poca cosa in confronto ai bombardieri strategici Usa B-2 Spirit, gli aerei più cari del mondo (2,1 miliardi di dollari ciascuno), impiegati contro la Libia. Concepiti per l’attacco nucleare, sono stati usati con armi non-nucleari contro la Serbia nel 1999 e l’Iraq nel 2003. Questi bombardieri stealth, invisibili ai radar, possono trasportare oltre 18 tonnellate di bombe in varie combinazioni: ad esempio, 16 «intelligenti» (a guida laser o Jdam) da 900 kg, o 34 bombe a grappolo Cbu-87 che rilasciano ciascuna oltre 200 mine. Ma il B-2 Spirit può trasportare anche 16 bombe nucleari B-61 o 16 missili nucleari Agm-129. Il fatto che questi bombardieri strategici siano di nuovo usati in una azione bellica reale, permette di migliorarne l’efficienza anche per un eventuale impiego in una guerra nucleare.

Lo stesso avviene con le centinaia di missili da crociera Tomahawk, che navi e sottomarini Usa e alleati stanno lanciando contro la Libia. Questi missili della statunitense Hughes, che costano 1,5 milioni di dollari l’uno, volano a bassa quota lungo il profilo del terreno e colpiscono l’obiettivo con testate di vario tipo, sia penetranti che a grappolo (ciascuna con centinaia di submunizioni). Queste testate, come molte altre, sono fabbricate con uranio impoverito che provoca successivamente disastrosi effetti per la salute e l’ambiente. Gli stessi Tomahawk possono essere armati con testate nucleari W-80: il loro uso in una azione bellica reale serve anche a perfezionarne l’impiego per l’attacco nucleare.

Che la guerra contro la Libia ne prepari altre, ben più pericolose, lo conferma Benjamin Netanyahu: in un’intervista alla Cnn il primo ministro israeliano ha detto che, se l’Iran non rinuncia al programma nucleare, ci vuole una «credibile azione militare per distruggere i suoi impianti nucleari». Tehran, pur non possedendo armi nucleari come invece le ha Israele, ha un potenziale militare ben maggiore della Libia: per attuare una «credibile azione militare» occorre puntare contro l’Iran armi nucleari ed essere pronti a usarle. In tale prospettiva gli Usa hanno già schierato nel Mediterraneo le prime unità della componente navale dello «scudo anti-missili», le navi lanciamissili Monterey e Stout. La seconda, intanto, lancia missili Tomahawk contro la Libia. Ma, assicura il presidente Napolitano, «non siamo entrati in guerra, è un’operazione dell’Onu».


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Intervista di Fermin Munarriz

Gara. Dicono che è il più grande drammaturgo spagnolo degli ultimi decenni. Ed anche basco. Perché ha deciso di esserlo. E di vivere in un paese che ama e ammira. La sua estesa opera è stata un impulso permanente contro la censura; la sua vita, un impegno con la libertà; il suo pensiero, una esplorazione costante della essenza umana. Dalla torre di guardia intellettuale o dall’asfalto della strada, è sempre stato – ed è – per chi lo necessita. Non ha risparmiato generosità. Ne lucidità. Per questo non lotta contro i mulini; lotta contro i giganti.

Signor Sastre: tragedia, commedia…In che funzione sta in questo momento l’ordine mondiale?

Non è facile spiegare la realtà con questi concetti…Già nel Rinascimento vennero smontati questi feticci e nacque la tragicommedia, che è una visione più complessa della realtà. La tragicommedia iniziò a dare grandi frutti: la tragedia grottesca, l’esperpento. (stile letterario basato sulla deformazione grottesca della realtà). E’ qui dove si trova il genere che possa riflettere la realtà attuale: una tragicommedia o un esperpento o una tragedia che fa ridere..Per me è una tragedia complessa. Siamo in un momento nel quale possiamo ridere però non piangere. Non è un momento per ridere ne un momento per piangere, ma di ridere per non piangere.

E nel caso di Euskal Herria?

Euskal Herria non è un caso speciale. In altri temi ha una caratteristica differente rispetto a quanto avviene in altri luoghi, però per quanto riguarda  se è da ridere o da piangere, si può dire che una situazione nella quale si ride per non piangere, però che ci sono molte ragioni per piangere.

Viviamo, forse, una sorta di penitenza per la non rottura democratica con il franchismo?

In Euskal Herria si verificò una forte resistenza alla Riforma, che anche la sinistra spagnola preconizzava. Arrivò un momento nel quale le idee della necessita di una rottura democratica scomparvero dai territori di Spagna e si rifugiarono in Euskal Herria; è qui dove cristallizzarono le idee del fatto che non si andrà da nessuna parte che meritasse la pena se non si verificava una nuova situazione in termini di rottura. Queste idee cristallizzarono qui e sono l’origine di ciò che poi fu la sinistra indipendentista. Questa fu una delle ragioni – a parte molte altre – del fatto che noi decidemmo venire qui. Vedemmo che le nostre idee più o meno erano socialmente ammesse in questo paese e no in Spagna.

In questo contesto, qual è la responsabilità morale dell’intellettuale nella società?

E’ la stessa di sempre: essere fedele alla sua vocazione intellettuale. E’una vocazione per la verità, per l’esplorazione della verità e per la difesa della giustizia. Sembra che alcuni intellettuali assumano questa responsabilità  ed altri la appartino un po’ e si limitano formalmente a lavorare a favore dell’intelligenza in termini di disimpegno totale da un punto di vista politico.

Crede che gli intellettuali baschi sono all’altezza della situazione?

Io ho un problema per poter rispondere a questa domanda al non essere capace di leggere ciò che scrivono gli intellettuali baschi in euskera. Qualsiasi opinione esprimessi sarebbe superficiale e sicuramente ingiusta. Però nel teatro, dove si vedo quanto si fa, più o meno, o quanto si pretende fare, credo che le genti del teatro basco non sono all’altezza delle circostanze nelle quali si vive in questo paese. Io ho cercato in alcune occasioni di far interessare ai miei colleghi nell’ esempio – non per seguirlo ma forse per ispirarsi ad esso – di ciò che fu il teatro irlandese nelle prime decadi del secolo XX. In alcune circostanze analoghe – con distinguo – nacque un teatro magnifico, di grande livello in Europa.

Il teatro in castigliano si manifesta abbastanza al margine delle questioni più patenti e latenti di questa società. E’ un teatro che guarda da un’altra parte e non per la realtà; forse per paura a guardare la realtà. La realtà a volte mette paura, anche questo è vero.

Gli intellettuali spagnoli e francesi sono all’altezza delle circostanze rispetto al caso basco?

No, sono all’altezza della loro ignoranza su questa situazione. Io credo che sono ignoranti. Lo vedo con gli spagnoli che conosco, sono più o meno alla pari –diciamo, in tutto, meno su questo tema. Quando si tratta il tema basco lo ignorano e, inoltre, sembra che rifiutino d comprenderlo…

A cosa si deve questo atteggiamento?

Al patriottismo, allo sciovinismo da grande potenza…Lenin già parlava del patriottismo sciovinista; faceva una critica a ciò che si chiamava sciovinismo da grande potenza. E Spagna e Francia sono grandi potenze in relazione a Euskal Herria. Lo sciovinismo è una filosofia comune che impedisce assolutamente vedere ciò che accade qui. E’ molto difficoltoso. Mi dicono amici che vivono a Madrid, per esempio, quanto difficile sia fare comprendere alcune cose che si comprendono vivendo qui. E si deve al patriottismo spagnolo completamente accecante.

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Quando sento parlare di Occidente, non so che cosa si voglia dire. Cosa intendiamo? Le famose “radici” greche come dicono alcuni? O le “radici” cristiano-giudaiche, ma quanta ipocrisia in quel trattino, e poi quale Cristianesimo? Ha marcato di più la Controriforma cattolica a sud, o a nord l’Europa protestante? E dove finisce l’Europa a est? E fin dove si espande a ovest? Quasi tutti sono d’accordo nel dire, con Fernand Braudel, che il grande prolungamento a ovest è il continente americano. Ma poi, proseguendo ancora verso Occidente, attraverso l’Oceano Pacifico, arriviamo al Giappone. La terra è rotonda. I nomi valgono per quel che valgono, sono definizioni di comodo, ma non darei loro un valore di essenza. Quando si parla di “radici”, perché non pensare, poniamo, anche alle radici vichinghe, dato che anche i vichinghi hanno avuto la loro storia? E se guardiamo alle tre grandi religioni monoteistiche, l’Islam non è stato talora il nostro “Occidente” (ricordando, per altro, che Maghreb significa appunto occidente)? Pensiamo al grande esperimento di El Andalus, un progetto di coesistenza che certo non era tolleranza in senso stretto, ma ha comunque visto fiorire insieme in modo pacifico tre civiltà: quella islamica, quella cristiana e quella ebraica. Basta andare a Cordoba per ritrovare tracce di questo progetto che poi la Spagna – dalla Riconquista dei re cattolici a Franco – ha fatto di tutto per cancellare. Occupandomi di scienza, vorrei citare una frase del grande fisico Freeman Dyson: “ Non esiste un visione scientifica unica come non esiste un visione poetica unica. La scienza è un mosaico di visioni parziali e conflittuali. In tutte queste visioni c’è però un elemento comune: la ribellione contro le restrizioni imposte dalla cultura localmente dominante Occidentale o Orientale che sia. La visione della scienza non è specificatamente occidentale. Non più occidentale quanto possa essere araba o indiana o giapponese o cinese.” Una cosa simile ha detto Amartya Sen a proposito della democrazia.

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