Il politico più amato dagli afgani – Enrico Piovesana

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“Usa e Nato non sono venuti in Afghanistan per sconfiggere i talebani, ma per rimanerci a scopi strategici. Finché sosterranno questo governo criminale nessuna pace sarà possibile in questo paese”

Ramzan Bashardost è stato la sorpresa delle scorse elezioni presidenziali: senza imbrogli, senza soldi e senza appoggi, prese l’11 per cento dei voti, piazzandosi al terzo posto dopo i due principali sfidanti.
In parlamento ha votato contro il nuovo governo Karzai e oggi continua la sua battaglia per la pace e la democrazia in Afghanistan dal suo ufficio di Kabul: una tenda e una catapecchia con quattro sedie di plastica rotte, riscaldata da una stufa a legna. Fuori, parcheggiata nel fango, la sua famosa automobilina con i colori della bandiera afgana al volante della quale ha girato tutto il paese in campagna elettorale. Nell’ufficio, affollato di povera gente venuta a parlargli dei suoi problemi, fa così freddo che Bashardost ci sta vestito con un logoro giaccone. Ai piedi porta vecchie galosce di plastica infangate. Ma i suoi modi sono eleganti. I suoi studi diplomatici a Parigi hanno lasciato un forte accento francesizzato al suo buon inglese. I suoi occhi da hazara trasmettono passione e sincerità.

Signor Bashardost, per le opinioni pubbliche occidentali è sempre più difficile capire le ragioni di questa guerra, del perché i nostri eserciti continuano da oltre otto anni a occupare il suo paese. Qual’è la sua spiegazione?
La guerra qui in Afghanistan è una guerra politica, una guerra per il controllo di un area strategica. Le forze militari internazionali non sono in Afghanistan per combattere quattro o cinquemila talebani. Sono qui perché l’Afghanistan ha confini con l’Iran, con la Cina e con i paesi dell’Asia centrale ricchi di risorse energetiche.
Gli Stati Uniti sono convinti che il paese con cui dovranno fare i conti in futuro è la Cina: una nuova guerra, fredda o calda, tra due diverse civiltà, tra due visioni contrapposte, tra interessi conflittuali. In questo scenario, l’Afghanistan gioca un ruolo fondamentale perché il nostro territorio può essere usato dagli Stati Uniti per compiere azioni contro la Cina. O contro l’Iran, in caso di conflitto.
Gli Stati Uniti e la Nato sono venuti qui in Afghanistan per impiantare basi militari con questi scopi strategici. E rimarranno qui fin quando ne avranno bisogno, anche un secolo se necessario!
La guerra contro i talebani serve agli Stati Uniti e alla Nato come scusa per continuare a mantenere le loro truppe in Afghanistan. La Cia sa benissimo dove vive il signor Mullah Omar o dove si trovi Osama bin Laden. Se volessero veramente catturare i capi dei talebani e porre fine alla guerra, potrebbero farlo nel giro di una settimana. Ma questo non è nell’interesse dell’America, perché se non ci fosse più la guerra, il signor Obama non avrebbe più un motivo per mantenere le sue truppe qui in Afghanistan.

C’è chi sostiene che le grandi offensive militari alleate contro i talebani, come quella appena conclusasi nella provincia meridionale di Helmand o altre che si stanno pianificando nella provincia di Kandahar, vengono largamente preannunciate perché lo scopo non è catturare o sconfiggere i talebani, cui viene dato tutto il tempo per spostarsi altrove, ma solo consentire al governo afgano di prendere il controllo di territori strategici dal punto di vista economico, in particolare per il controllo della produzione dell’oppio e quindi dell’eroina: attività nella quale le autorità afgane sono notoriamente coinvolte.
I paesi occidentali, gli Stati Uniti così come l’Italia, versano in Afghanistan il sangue dei loro soldati e i soldi dei loro contribuenti, i vostri soldi, non per aiutare il popolo afgano, non per ricostruire il nostro paese, ma per proteggere e arricchire l’establishment mafioso che oggi controlla l’Afghanistan, i criminali di guerra che oggi sono al potere in qualità di vicepresidenti, ministri, governatori provinciali, capi della polizia e dell’esercito.
Sono tutti criminali di guerra, ex mujahedin che in passato hanno combattuto contro i talebani, uccidendone a migliaia, e che per questo oggi i talebani considerano loro nemici. Nel 1994 i talebani presero le armi contro i mujaheddin che erano al potere e li rovesciarono. Dopo il 2001, questi mujaheddin sono tornati al potere con il signor Karzai e con le truppe americane, e i talebani sono tornati a combattere contro di loro, contro i loro nemici.
I nemici del Mullah Omar non sono il signor Bush o il signor Berlusconi: sono i vari Fahim, Khalili, Qanouni, Sayyaf, tutti i leader mujahedin che durante la guerra civile uccisero migliaia di talebani.
Il potere di questi personaggi si regge sulla protezione delle truppe straniere: se si ritirassero, il Mullah Omar prenderebbe Kabul nel giro di due ore e i capi mujahedin andrebbero sulle montagne iniziando una nuova guerra civile.
Così come la guerra dell’America non è contro i talebani, la guerra dei talebani non è contro l’America, bensì contro i loro nemici storici che grazie agli Stati Uniti e l’Occidente oggi sono al potere.

Per riportare la pace e la sicurezza in Afghanistan, l’amministrazione Obama sembra puntare, oltre che sulla via militare, anche su una soluzione negoziale, su trattative tra governo e talebani, per giungere alla riconciliazione nazionale. Dopo quello che ci ha detto, sembrerebbe un’ipotesi alquanto remota.
Non ci sarà mai pace e sicurezza in Afghanistan né riconciliazione nazionale finché a Kabul saranno al potere questi criminali di guerra.
Se il signor Obama volesse veramente il cambiamento, se volesse veramente promuovere la democrazia e i diritti umani, la pace e la sicurezza in Afghanistan, dovrebbe cessare il sostegno politico, finanziario e militare a questi signori di guerra che sono tornati al potere. E che invece dovrebbero stare in un tribunale o in galera.
La comunità internazionale dovrebbe indire nuove elezioni dicendo chiaro e tondo che non saranno tollerate frodi elettorali, dicendo a Karzai: “Se i tuoi ministri, i tuoi governatori, i tuoi comandanti di polizia e capi distrettuali imbriglieranno ancora, noi ti tagliamo gli aiuti e non ti sosteniamo più”. Solo così il popolo afgano potrà scegliere un nuovo presidente e una nuova classe dirigente che non sia più composta da criminali di guerra, mafiosi e corrotti. Solo così i soldi della comunità internazionale potrebbero essere usati per la ricostruzione dell’Afghanistan, invece che di finire nelle tasche di questi signori che poi li usano per pagarsi ville lussuose, guardie private, fuoristrada da 80 mila dollari e uno stile di vita elevato. Sono sicuro che se una nuova generazione prenderà il potere al posto degli ex mujahedin, i talebani non avranno più ragioni per combattere contro lo Stato afgano e, allora sì, sarà possibile ristabilire la pace e la sicurezza in questo paese.


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Immagine ottenuta dalla webcam del Municipio di Bilbao, che mostra la calle Autonomia 

 

E’ un tratto della cultura politica del Paese Basco la manifestazione di piazza. E quella di oggi rientra a pieno titolo tra le più numerose. Ancora una volta è Bilbao a “misurare”, come hanno scritto alcuni quotidiani spagnoli, l’adesione alla rivendicazione del rispetto dei diritti politici dei 735 detenuti e detenute politiche rinchiusi in decine carceri soprattutto in Spagna ma anche in Francia. C’era attesa per questo appuntamento. Attesa se si sarebbe svolta o meno, visti i divieti e proibizioni all’ultima ora a cui avevano abituato  l’Audiencia Nacional, il tribunale speciale spagnolo in questi anni di “proscrizione” a tutto quanto odori a sinistra indipendentista. In questo caso, però, l’ennesima richiesta avanzata dalla Asociacion Victimas del Terrorismo, e supportata dal Partido Popular, non ha avuto esito. Il giudice di turno dell’ Audiencia Nacional, Pedraz non  ha riscontrato nella piattaforma che ha organizzato la marcia un legame organico con organizzazioni ilegalizzate ne “la rivendicazione di un cambiamento della politica penitenziaria può essere identificata con apologia di terrorismo”. Insomma tutto faceva presagire che questa volta le arterie e piazze che dividono in due il capoluogo basco sarebbero state invase “fino a tracimare” da decine di migliaia di persone. E cosi è stato.  Migliaia di persone che hanno dimostrato ancora una volta che al di là della identificazione o meno con le azioni delle persone detenute, la “questione dei prigionieri” rimane un aspetto determinante nella soluzione del conflitto basco spagnolo. Una sensibilità storica verso la detenzione politica che ha accompagnato in modi diversi  la storia di questo paese per tutto il secolo scorso fino ai nostri giorni. Attesa c’era anche per cosa avrebbero detto le forze politiche Sinistra Indipendentista, Eusko Alkaratuna, Aralar Alternatiba e sindacali ELA LAB Ehne, Esk le principali organizzazioni della area progressista basca che, oltre ad aderire alla manifestazione, hanno anche sottoscritto l’Accordo di Gernika nel quale si chiede esplicitamente a ETA e Governo spagnolo di intraprendere un camino di soluzione pacifica del conflitto. Attesa c’era anche se ETA avrebbe “detto qualcosa” in questa occasione, quando sono settimane che politici e mezzi d’informazione annunciano “a breve” un comunicato dell‘organizzazione armata basca, meglio sarebbe dire IL comunicato, nel quale ETA rivelerebbe se accetta le esigenze contenute nell’Accordo di Gernika. In tal senso si è espresso il portavoce del Partido Socialista basco, Pastor, per il quale la manifestazione “sarebbe una buona occasione” per chiedere a ETA la fine della lotta armata. Ma gli esponenti delle forze politiche presenti alla manifestazione hanno evitato di pronunciarsi su altri argomenti che non siano quelli inerenti la necessita di un cambiamento della politica penitenziaria nei confronti dei detenuti baschi da parte del Governo spagnolo. Del resto, in Spagna la questione basca viene ormai percepita come incamminata verso una sua evoluzione e che la sinistra indipendentista presto o tardi tornerà ad essere protagonista anche in ambito elettorale e istituzionale. Per questo sia il quotidiano conservatore El Mundo sia quello filo socialista Publico, attribuivano alla manifestazione la funzione di “banco di prova” per la sinistra indipendentista. El Pais, da parte sua, ha riferito “in diretta” della manifestazione, fatto questo unico per questo riguarda una manifestazione della sinistra basca. Ma c’è anche chi ha manifestato la sua totale contrarietà a questa manifestazione soffiando sul fuoco del “conflitto perenne”.  Cosi il quotidiano monarchico ABC titola “Marcia a Bilbao al grido di “senza amnistia non ci sarà pace” (sic), mentre per il presidente del Partido Popular del Paese basco, che appoggia il  governo del Partito socialista nella Comunita Autonoma Basca, Antonio Basagoiti, la manifestazione di oggi a Bilbao “è tanto ripugnante come un atto a favore di stupratori detenuti”.

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