Boris Pahor rifiuta il premio del sindaco di Trieste perchè non cita i crimini fascisti
Perché poi, quando non è passato alla quinta italiana che cosa è successo?
Mi hanno considerato uno studente fallito e mi hanno mandato in un seminario sperando che qualcuno si prendesse cura di me. Tornando al riconoscimenti, è chiaro che il fascismo da noi è meglio lasciarlo da parte. Meglio non parlarne, no? Ma per me fascismo vuol dire la rovina della mia gioventù. Prendi la casa della cultura slovena. Adesso c’è un centro di traduttori e interpreti. Ma sulla lastra di marmo – del 1920 – non c’è scritto che sono stati i fascisti a incendiarla, bensì dei nazionalisti. E perché non lo firmano loro, i fascisti, se dopo dieci anni hanno pubblicato un volume dicendo “la rivoluzione fascista è nata qui”? La prima dittatura di destra in Europa è nata in Italia, e in più, e questo lo aggiungo io, è nata a Trieste. Capisce che Mussolini ha preparato in tutte le maniere la sua ascesa al governo nel ’22.
E qui il fascismo ha cercato di annientare la comunità slovena.
Certo. Hanno bruciato i nostri edifici. Hanno svaligiato le nostre biblioteche, hanno buttato i nostri libri fuori dalle biblioteche. Hanno persino fatto un grande mucchio dei libri sloveni davanti al monumento a Verdi, per dimostrare il simbolo dell’italianità, dicevano loro. Ci trattavano da ignoranti, per loro eravamo un popolo senza cultura. “Cimici” hanno scritto persino su un giornale, le cimici che hanno invaso un quartiere. Perché noi si diceva che fossimo della gente venuta da fuori per occupare Trieste italiana, invece sono balle, perché siamo qui da dodici secoli. Adesso la verità sta venendo a galla. Uno dei palazzi bruciati dal fascismo era il teatro dove si dava Ibsen, si rappresentava teatro europeo. Gli sloveni a Trieste nel ’18 erano più numerosi che a Ljubljana, non eravamo mica ignoranti noialtri. Io sono nato nel ghetto a Trieste.
Ci parli ancora un po’ della sua giovinezza.
Come ho detto, è stata la mia rovina. Non è che mi abbiano tormentato fisicamente, picchiato. A scuola bisognava conoscere l’italiano per fare i compiti. E i compiti io come li scrivevo, se non avevo una preparazione? Mio papà era fotografo della gendarmeria, e durante l’epoca austriaca si è arrangiato a parlare il tedesco, ma lui era triestino, parlava in dialetto. E quindi a scuola ero un fallimento: ha dovuto pagare il maestro per farmi fare la quinta. E dopo fu un fallimento: mi fecero fare un biennio commerciale perché lui era un venditore ambulante, e ha dovuto arrangiarsi per guadagnare. Ha preso da mio nonno, suo padre, una rivendita di burro, ricotta, lievito; e ha voluto che io studiassi perché non voleva che vendessi in inverno, con la bora che va a novanta, cento chilometri. Ma il primo anno ero insufficiente, e dovetti ripetere; il secondo anno fu peggio del primo. Non era che fossi diventato stupido. Ma non potevo convincermi a scrivere di Mazzini, di Garibaldi, di tutta questa storia che era straniera per me. I ragazzi più grandi mi hanno spiegato che bisognava per forza accettare che se si voleva far parte della scuola normale, bisognava diventare italiani quel tanto che occorreva per scrivere i compiti e studiare la storia, però noialtri dovevamo conservare la nostra identità, rimanere fedeli a noi stessi. Dovevamo farlo di nascosto, illegalmente, dovevamo cercare di trovare i libri e non era facile trovare i libri perché le biblioteche erano distrutte, le librerie slovene non si trovavano. I libri dovevano arrivare da oltre frontiera, come il tabacco. Oggi abbiamo le scuole slovene qui in Friuli. Però quei venticinque anni di fascismo sono stati anni di pulizia completa. Ma questo nostro passato viene taciuto, viene insabbiato.
E dopo il seminario?
Appena uscito dal seminario dovevo andare a militare. E’ una balla quello che dicono che sono andato volontario in Libia. E’ una balla. Io potevo non andare in Libia, ma non è che potevo evitare il militare. Se non disertando. Ma io volevo prendermi la laurea. Prima però dovevo rifare la maturità. Quindi ho accettato di fare il militare, a 27 anni. E’ vero, c’era la possibilità pagando un maresciallo, di andare in una città italiana invece che in Libia. Ma io ho preferito andare in Libia, piuttosto che continuare a stare in questa situazione, in questo paese che mi respingeva. Ovviamente ci siamo ritrovati combattenti, perché è scoppiata la guerra. E noi non avevamo nessuna preparazione. La mia fortuna è stata che quando ci hanno imbarcato per Bengasi da Tripoli, vicino alla frontiera egiziana è arrivata la circolare che diceva che chi voleva fare l’esame di maturità poteva tornare a Bengasi. Non le dico come sono tornato indietro. Ma sono arrivato a Bengasi. Ho passato l’esame e dalla Libia mi sono iscritto alla facoltà di lettere di Padova. Sono tornato in Italia nel gennaio del 1941. Il centro era a Cremona. Ci hanno vestito da militari. Qui sono stato fortunato perché mi hanno messo in ufficio. Andavo a fare gli esami a Padova da privatista. A questo punto arriva l’ordine da Roma che servono interpreti di serbo-croato. Io mi propongo, anche se non ero ufficiale. Vengo preso e mandato al Lago di Garda in un piccolo campo di centocinquanta ufficiali, per lo più serbi e croati. Da lì continuavo ad andare a Padova. Arriva l’8 settembre e tutti scappiamo. I tedeschi fanno razzie e io sono andato a Trieste. Ma c’era già la polizia tedesca. E già era cominciata la resistenza. Io resto in città, nonostante i pericoli. Mi sarei dovuto consegnare alle autorità militari e non l’ho fatto. Ma soprattutto mi hanno distrutto i collaboratori con il fascismo.
E’ stato arrestato e mandato nei campi di concentramento.
Sono stato arrestato da collaboratori sloveni della Gestapo. Dopo il passaggio alla Gestapo mi hanno mandato nel campo di concentramento di Dachau, poi in Alsazia e poi nel campo di cui scrivo in Necropoli, Natzweiler-Struthof. Ho avuto la fortuna di un francese che mi scopre sloveno e dà il mio nominativo come interprete. Sapevo anche un po’ di tedesco, lingua che non amavo, ma che in questo frangente mi è tornata utile. Nel campo erano tutti moribondi. Avevo paura che mi costringessero a parlare, a dare nomi, con il tormento dell’elettricità. Arrivato a Dachau la seconda volta c’erano gli sloveni cristiano sociali. Io comunque in un modo o nell’altro sarei finito nel campo di concentramento. Perché se non mi avessero arrestato e accusato di incitare il popolo alla resistenza, mi avrebbero deportato perché non avrei accettato di stare con loro. Nel campo ho fatto l’infermiere. Ero con i morti. Prima ero con i malati, e lì si sa che quando eri in posizione orizzontale ormai non hai più speranze di uscire in piedi. Uscivi in barella per andare al forno.
Noi siamo stati liberati il 15 aprile del 1945. Avevo una caverna nel polmone destro. Gli inglesi erano impreparati, non si aspettavano di vedere quella marea di gente morta e morente. Due dei miei amici infermieri francesi hanno deciso di scappare. E io, come tisico, non avevo né fame né sete. Quando una malattia seria ti colpiva, non avevi più fame. E quello era il momento in cui sapevi che le cose si stavano facendo gravi. Comunque, decido di andare. A piedi e in autostop da Bergen Belsen siano arrivati in Olanda. In quel campo mandavano tutto quello che era corpo umano distrutto, destinato a morire. Si mandava fuori per avere le camerate degli altri campi libere. Non si riceveva un colpo nella nuca, come quando si marciava, nei campi fino a quando uno non moriva doveva viaggiare, caricato e scaricato come un sacco. La differenza tra campi politici e campi dove finivano gli ebrei, era questa. Finivamo in cenere anche noi, ma finché respiravi dovevi lavorare.
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