LA COLOMBIA NON CAMBIA – Guido Piccoli

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Il 7 agosto prossimo prenderà possesso di Palacio Nariño l’ex ministro della Difesa, Juan Manuel Santos. Dopo otto anni di governo di Alvaro Uribe, quindi, la sua fotocopia?

L’illusione del “cambio”in Colombia è durata pochissimo. Ma era più una speranza o un miraggio? Non è facile rispondere.

A far sperare nella fine di un’epoca che non si riduce alla presidenza Uribe e che potrebbe sconfinare nel secolo XIX° quando Simón Bolívar fu cacciato da Bogotà, è stata un’alleanza inedita. Da un lato, un pugno di giudici della Corte Costituzionale e della Corte Suprema che hanno fermato la corsa di Uribe verso il terzo mandato presidenziale, dimostrando che nello Stato colombiano perdura, almeno in parte, quella separazione dei poteri che dovrebbe essere alla base d’ogni democrazia ( e che scarseggia, ad esempio, in Spagna e che si vorrebbe limitare nell’Italia berlusconiana). Dall’altro, il candidato di un partito (se non inesistente senz’altro solo d’opinione) come quello Verde, Antanas Mockus, filosofo e matematico, ex rettore dell’università Nacional e due volte sindaco di Bogotà.

Contro il candidato del potere economico-politico, appunto Juan Manuel Santos, appartenente di una delle famiglie più potenti del paese (proprietarie tra l’altro dell’unico quotidiano nazionale, “El Tiempo”), e rappresentante dell’oligarchia tradizionale, ma anche della nuova oligarchia, cresciuta negli ultimi decenni, nei tempi del neo-liberismo sfrenato e dall’auge della droga ad adesso.

Di Uribe, Santos non possedeva però il carisma e nemmeno quella sicumera, che aveva fatto colpo su una parte consistente di colombiani nel promettere un paese prospero, pacificato e unito, senza guerriglia e senza droga. E così il vulcanico Mockus è sembrato, ad un certo punto, in grado di fare il miracolo. A sostenerlo erano i sondaggi, i giornali e anche lo stesso Uribe che si è spesso mostrato irritato dal presunto successo della campagna elettorale di Mockus su parole d’ordine come la lotta alla corruzione, la partecipazione popolare e il dialogo come strumento di soluzione dei conflitti, che a Uribe e alla gran parte degli uomini del regime apparivano bestemmie.

Ma Mockus non piaceva neanche a sinistra. Il suo programma era ritenuto confuso o vago riguardo alle questioni basilari della realtà colombiana, come l’ingiustizia sociale, l’impunità, la sudditanza agli Usa e il conflitto armato. A ragione, d’altronde non era possibile chiedere a Mockus di essere un altro.

Al primo turno, sono arrivate insieme una conferma e una clamorosa smentita. Da un lato, la riprova che Mockus fosse l’unica alternativa a Santos. Ma dall’altro che tra i due ci fosse una differenza di voti enorme, incolmabile al ballottaggio.

E così è stato. Pur avendo attirato un altro mezzo milione di elettori, il 20 giugno Mockus è arrivato al 27% circa dell’elettorato, mentre Santos è stato eletto presidente col 69% dei consensi. Un dato da rimarcare: facendo un calcolo sugli aventi diritto al voto, Santos è stato votato da 3 colombiani su 10, Mockus da uno su dieci, visto che quasi sei elettori hanno preferito disertare le urne. E’ il dato che, pur in linea con quanto avvenuto finora in Colombia, fa cantare vittoria alle Farc che in un comunicato della sua segreteria parla di “un trionfo illegittimo del continuiamo, ripudiato dall’astensione cittadina”. Torniamo alle domande iniziali. Mockus è stato un’illusione o un miraggio? Probabilmente il programma di Mockus, basato su onestà e dialogo, è apparso come i famosi e inutili “pannicelli caldi” che si danno ai malati gravi o ai moribondi. Fatto sta che i sondaggi che gli attribuivano un pareggio con Santos e persino una vittoria nel ballottaggio, sono stati clamorosamente smentiti. La Gallup, la Ipsos e la Datexco hanno dato la colpa all’ultima settimana che sarebbe stata fatidica per il candidato verde, caduto sotto i colpi di una campagna mediatica ben orchestrata dal regime. C’è da dubitare ricordando che i sondaggi vengono fatti per telefono e i dibattiti vengono fatti in televisione, strumenti di un “progresso”, negato ad una buona parte di colombiani. E allora?  Qualcuno ne ha visto una manovra del potere per far crescere un antagonista senza un vero partito alle spalle in grado di controllare il voto ed evitare le solite truffe nei seggi e prima ancora le manovre per costringere al voto sotto ricatto milioni di elettori (visto che lontano dalle città sono ancora ben presenti le bande di paramilitari, al soldo dei cacicchi locali).

E poi l’altra: Santos è la fotocopia di Uribe? I due hanno storie, stili e patrocinatori diversi, ma è presumibile che alla Colombia verrà propinata la stessa ricetta, fatta di neo-liberismo e autoritarismo, e che dalla Colombia arriveranno notizie di violenza e scandali, impunità e ingiustizie sociali. Nonostante i suoi canti da sirena per attrarre nel suo governo tutta l’opposizione e per affievolire i contrasti con i paesi vicini, Venezuela e Ecuador, Santos non si discosterà dal solco tracciato da Uribe. C’è da scommettere che tra quattro anni la realtà colombiana sarà più o meno tristemente la stessa. Che le Farc combatteranno ancora. Che la cocaina sarà un carburante dell’economia. Che saranno attive le basi statunitensi in funzione di controllo dell’area andina. Che l’esercito continuerà ad essere un’istituzione criminale al servizio dei potenti e nemica della popolazione, di cui non avrà conquistato né il cuore e nemmeno la mente. Che i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri e i miserabili sempre più poveri e miserabili. Che le multinazionali continueranno ad arricchirsi nelle sue terre. Che i diritti umani saranno calpestati in chissà quali altri modi atroci.

E anche, magari, da augurarsi che l’illusione attuale, rivelatasi un miraggio, potrà diventare una speranza concreta di “cambio”. La responsabilità ai movimenti sociali, alle organizzazioni politiche, disarmate o meno, nelle città, nelle campagne e sulle montagne.


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