ISRAELE, COLOMBIA, …STRASBURGO, I DIRITTI UMANI? IL CASO DI YAIR KLEIN – GUIDO PICCOLI

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1° capitolo  Yair e Pablo

Era Yair Klein a gridare “Fuoco!”. Quando la Toyota si avvicinava ai bersagli di cartone, gli allievi seduti sui sedili posteriori si sporgevano fino alla vita dai finestrini e vi scaricavano contro le mitragliette mini Uzi.

Pablo Escobar aveva evitato di partecipare all’esibizione finale del primo corso di sicariato tenuto in Colombia: quegli istruttori israeliani non gli erano simpatici. In quel giorno del febbraio 1988, nell’improvvisato poligono della tenuta El Cinquenta c’erano i Pérez e qualche altro latifondista della regione del Magdalena Medio, il sindaco di Puerto Boyacà e vari ufficiali del locale battaglione dell’esercito, tra i quali il colonnello Luis Bohórquez. Faceva gli onori di casa Gonzalo Rodríguez Gacha, detto il Messicano, che sembrava il più entusiasta del corso che aveva appena diplomato trenta nuovi sicari, tra i quali suo figlio Freddy. “”Abbiamo speso per ognuno di voi più di un milione e mezzo di pesos: soldi che recupereremo fino all’ultimo centesimo” proclamò in un comizio improvvisato l’altro capo, oltre a Escobar, del cartello di Medellín.

Il Messicano era orgoglioso del primogenito di 17 anni, detto Pocillo (tazzina) per le considerevoli orecchie a sventola, al quale aveva da poco regalato  una motocicletta dorata. Il boss se lo poteva permettere. Proprio quell’anno, la rivista “Fortune” gli aveva dedicato una copertina e “Forbes” l’aveva piazzato nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, anche se lontano da Pablo Escobar che, al 14° posto, contava su un guadagno annuo di tre miliardi di dollari. Don Pablo  aveva intestato il suo impero a decine di prestanome privilegiando, naturalmente, i familiari più stretti (all’età di quattro anni, la figlioletta Juana Manuela risultava proprietaria di 66 garage, 34 parcheggi privati, 8 uffici, 12 magazzini e 13 appartamenti).

Tra Escobar e Rodríguez Gacha non c’era rivalità: si rispettavano e si temevano a vicenda e si erano equamente divisi compiti e campi d’azione.

Dopo la conclusione dell’avventura politica che l’aveva portato nel 1982 in parlamento come deputato del Partito Liberale, Escobar aveva preferito occuparsi dell’azienda del narcotraffico, dello sviluppo delle reti di distribuzione estere, nonché delle rotte aeree e navali per il trasporto della droga. Dirigeva anche la guerra contro chiunque ostacolasse gli affari del cartello, a cominciare dai narcos di Cali, e guidava la crociata contro la legge di estradizione dei colombiani all’estero. “Meglio una tomba in Colombia che una cella negli Stati Uniti” era da tempo la parola d’ordine dei narcos.

Il Messicano invece si impegnava soprattutto a combattere la guerriglia, con la quale aveva cominciato a scontrarsi quattro anni prima nelle foreste della Colombia sud-orientale, quando, stando alle sue parole, “le Farc prima cominciarono a rubare i soldi che mandavamo per comprare la pasta di coca, poi iniziarono ad assalirci e a tentare di sequestrarci”. Investendo buona parte dei suoi guadagni nelle terre più fertili del paese, Rodríguez Gacha si era esposto ai ricatti dei ribelli delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), la guerriglia più forte del paese. Il suo anticomunismo l’aveva avvicinato ai generali che da tempo applicavano la “Dottrina della sicurezza nazionale”, imparata nelle accademie militari statunitensi di Panama e Fort Bragg.

“Mentre lo Stato gli dà qualche medaglia, io li riempio di soldi” disse in un’intervista alla rivista spagnola “Interviù”. .A Pacho, un paesino circondato da agrumeti a due ore di macchina da Bogotà, dov’era nato e considerato una specie di Dio, Rodríguez Gacha era solito distribuire pubblicamente, una volta al mese, la mancia ai militari della locale caserma. Solo agli ufficiali risparmiava l’umiliante fila di fronte al bar della piazza principale. Loro potevano incontrarlo nelle tenute Chihuahua e Santa Rosa dove ricevevano fasci di dollari e regali sostanziosi come Rolex d’oro. Tanta premura aveva un suo tornaconto: l’esercito lo lasciava circolare liberamente per il paese, nonostante avesse già accumulato vari mandati di cattura colombiani, per traffico di stupefacenti e riciclaggio di denaro sporco, e un paio statunitensi, per omicidio e cospirazione. In più di un’occasione, i militari si erano anche prestati ad ammazzargli qualche concorrente.

Escobar e Rodríguez Gacha arrivarono nel Magdalena Medio, quando i latifondisti e i dirigenti della locale Texas Petroleum Company, o Texaco, (il primo gruppo nordamericano a ricevere l’autorizzazione a sfruttare i giacimenti nel paese) stavano organizzandosi, con l’aiuto dei comandanti militari della zona, per rispondere alle sempre più generalizzate richieste estorsive del IV Fronte delle Farc. I mafiosi trovavano conveniente investire i loro capitali proprio nelle regioni come Antioquia, la Costa Atlantica e gli Llanos Orientales, dove i prezzi della terra erano crollati per l’attività dei ribelli. Nel Magdalena Medio, Escobar e Rodríguez Gacha decisero di esibire, senza ritegno, le loro ricchezze. Nel 1979, don Pablo comprò a La Dorada, a metà strada tra Bogotà e Medellín, la tenuta Nápoles, una fattoria di duemila ettari sulla riva sinistra del rio Magdalena: un uomo impiegava quasi un’ora per andare a piedi dall’ingresso alla casa principale, La Mayora, e cinque giorni a cavallo per percorrere tutto il suo perimetro.

In pochi anni l’aveva dotata di una pista clandestina, chiamata Mama Rosa, custodita da decine di uomini armati, di varie ville, piscine e laghetti artificiali, scuderie, campi da pallone, da tennis e da golf  e di un’arena per corrida. E soprattutto di uno zoo con duemila animali fatti arrivare da ogni continente, tra i quali giraffe, ippopotami, elefanti, tigri, antilopi, canguri, alci e rinoceronti. Gli scheletri di un dinosauro, un brontosauro e un mammut, “animali sfortunatamente estinti” come recitava il depliant dello zoo,  erano stati  ricostruiti a grandezza naturale. In un reportage di “Forbes” si scrisse che “in Colombia Escobar ha avuto più problemi legali per l’importazione di animali esotici che per l’esportazione della cocaina”. In verità, ebbe ancora più problemi la giudice Carmencita Londoño che indagava su questo stravagante traffico. Nel maggio 1986, ricevette una lettera minatoria che, tra l’altro, diceva: “E’ una disgrazia che lei, senza alcun rispetto per la legge e la proprietà privata, voglia arrestare Escobar, colpevole solo di avere portato il progresso in Colombia e di avere contribuito allo sviluppo della natura e della fauna silvestre del nostro paese. Le garantiamo che lei non otterrà nessun avanzamento di carriera, ma solo la retrocessione nelle tenebre della morte”.  Una settimana dopo, la Londoño cadde nel centro di Medellín sotto i colpi di due sicari in motocicletta. L’omicidio non fece diminuire l’affluenza allo zoo, il più fornito e l’unico gratuito del paese. “E’ del popolo e il popolo non deve pagare per visitare qualcosa che gli appartiene” affermava don Pablo. In seguito si scoprì che il boss non pensava solo all’educazione scientifica popolare, ma utilizzava gli escrementi degli animali feroci per impregnare del loro odore le borse destinate al trasporto della cocaina allo scopo di terrorizzare i cani antidroga.  L’esibizionismo di Escobar non conosceva limiti. Tanto per non lasciare dubbi sull’origine delle sue fortune, don Pablo fece piazzare all’ingresso di Nápoles il piccolo Piper col quale aveva trasportato personalmente il primo carico di cocaina in Florida. Il cimelio fu ben visibile, per una decina d’anni, dalla strada che congiunge Bogotà e Medellín. Nel piazzale antistante lo zoo fece sistemare, su un piedistallo di marmo, un’automobile degli Anni Trenta, crivellata di colpi e appartenuta, secondo quanto vantava il boss, niente di meno che alla coppia di banditi nordamericani Bonny Parker e Clyde Barrow.

Rodríguez Gacha era stato appena più discreto. Aveva acquistato, sulla riva destra del rio Magdalena, la tenuta El Sortilegio da un mafioso degli smeraldi che, nel febbraio 1989, avrebbe fatto ammazzare, insieme con venti persone, da un plotone di militari al suo servizio. A El Sortilegio fece costruire il più moderno allevamento di galli da combattimento, una delle sue grandi passioni, che suscitò scalpore tra i contadini della regione per l’impianto di aria condizionata di cui erano dotate le gabbie. Ma la tenuta diventò famosa perché il suo maneggio ospitava il meraviglioso sauro Tupac Amaru, soprannominato “Cavallo alato”, adibito solo alla riproduzione – ogni monta poteva costare fino a 10 mila dollari –  visto che gli erano vietati tutti i concorsi nei quali era ritenuto imbattibile. Quando Rodríguez Gacha caracollava per Puerto Boyacá in groppa al superbo cavallo, la polizia era solita bloccare il traffico automobilistico.

Fu il Messicano a pagare la gran parte degli 800 mila dollari, pattuiti per quattro corsi di addestramento con Yair Klein e gli sgli istruttori della società Spearhead. Fornì ai suoi allievi uniformi dell’esercito di Tel Aviv e fucili mitragliatori Galil e Uzi, dotati di mirini telescopici. E impose loro una disciplina di ferro. Alla fine dell’esibizione di febbraio, i trenta sicari diplomati, prima di sparare in aria gridando “morte ai comunisti, morte alle Farc!”, cantarono l’inno della locale Associazione degli allevatori (Acdegam): “Eravamo comunisti / obbligati a lottare / per dottrine importate/ contro il popolo e la pace/ Nostro motto è la difesa / dei figli e della casa / degli averi e della terra / e pronti noi siamo / ”.

Da anni, decine di spregiudicati latifondisti del cuore agricolo della Colombia si stavano appropriando con la forza dei terreni di decine di migliaia di piccoli e medi proprietari, vessati anche dalla tassazione, o vacuna ganadera, delle Farc. Alcuni furono obbligati a vendere la loro proprietà a prezzi irrisori: “Se non firmi oggi, domani trattiamo con la vedova” era la frase di rito. La strategia di “togliere l’acqua al pesce” della guerriglia che, dal 1982 al 1985, aveva portato all’eliminazione di più di cinquemila persone, era spesso un alibi per far fuori sindacalisti, braccianti o creditori dei latifondisti.

Un paramilitare pentito confessò, ad esempio, di avere ucciso un tagliaboschi, per conto di Carlos Delgado, un proprietario terriero e membro dell’Acdegam: ” Insieme col sergente Medina lo catturammo e lo portammo sulla riva del fiume e io, interrogandolo personalmente, non trovai alcuna ragione per ucciderlo e dissi al sergente che mi sembrava un onesto lavoratore e non un guerrigliero, ma lui rispose che dovevamo credere e ubbidire a don Carlos, gli si avvicinò e gli sparò un colpo in testa e due nella schiena… Lo buttammo nel fiume… In seguito verificai di persona che Carlos Delgado gli doveva cinque anni di lavoro e che, per non pagarlo, aveva parlato col sergente”.

Il più famoso giornalista colombiano, Antonio Caballero, scrisse sul “El Espectador” che “il rio Magdalena è la colonna vertebrale della Colombia attraverso la quale (adesso che i pesticidi hanno ammazzato i pesci) galleggiano soltanto i cadaveri di uomini assassinati”.

Sullo stesso giornale Gabriel García Márquez denunciò che “gli autori materiali del genocidio sono bande di pistoleros prezzolati che ammazzano in pieno giorno, qualche volta mascherati e qualche volta no, e che tutti conoscono, ma che nessuno si azzarda a denunciare. I loro metodi sono purtroppo radicati nella memoria della Colombia, tanto da risultarci familiari per la loro barbarie. I cadaveri, che galleggiano sulle acque o giacciono anonimi nei sentieri, sono stati scorticati a coltellate e appaiono con gli organi genitali tagliati, alle volte infilati in bocca”. I massacri avvenivano nell’impunità totale e col beneplacito del potere e della stampa di regime, a cominciare dal quotidiano più venduto, “El Tiempo”, che definiva Puerto Boyacà “la capitale antisovversiva della Colombia”, come per anni appariva anche, a lettere cubitali, su un enorme cartellone sistemato all’entrata della cittadina.

La pulizia politica nel Magdalena Medio era finanziata, alla luce del sole, dalla Texaco che pagava i  battaglioni operanti in zona,  grazie alla  decisione della Corte costituzionale di legalizzare gli accordi privati tra le multinazionali e l’esercito colombiano. Per espandersi ad altre regioni, aveva però bisogno di capitali più ingenti, come i tesori di Escobar e Rodríguez Gacha. “Ragazzi, lavoreremo per qualche tempo con i mafiosi” dissero ai loro uomini i fratelli Pérez, tra i più agguerriti latifondisti della regione.

Il corso di sicariato, organizzato nel 1988 dalla società di Yair Klein, sancì l’alleanza dei narcos col nascente movimento paramilitare.

L’ex colonnello israeliano riteneva tranquilla quella missione in Colombia: era stato contattato da una società del ministero della difesa colombiano, grazie alla mediazione di un suo connazionale, Eitan Koren, che dopo essere stato responsabile della sicurezza del premier Menachem Begin rappresentava in  America Latina l’azienda militare Isds (Israel Security Defense System). In quell’epoca, la Colombia  era il maggiore partner commerciale dell’industria bellica israeliana, con commesse per cinquecento milioni di dollari. Quando Klein era arrivato all’aeroporto El Dorado di Bogotà, era stato accolto da un maggiore dei servizi segreti. Prima di partire per il Magdalena Medio, aveva incontrato altri ufficiali dell’esercito colombiano, un senatore, alcuni dirigenti del Banco Ganadero e persino un vice ministro che, con le lacrime agli occhi, aveva definito gli istruttori israeliani “l’ultima speranza della Colombia, prima che finisca come Cuba o il Nicaragua” .

I mercenari che accompagnarono Klein a Puerto Boyacà erano personaggi di tutto rispetto dei servizi segreti dello stato ebraico. Tra di loro c’era Abraham Tzadaka, l’ex comandante delle unità antiterrorismo delle Forze Armate di Tel Aviv, il tenente colonnello Amatzia Shuali, istruttore delle truppe speciali guatemalteche, Michael Harari, capo della sicurezza del deposto generale panamense Manuel Noriega, Rafi Eitan, capo dell’organizzazione segreta ‘Lakam’, impegnata nello sviluppo dei programmi nucleari israeliani, e l’agente Arik Afek, che risultò implicato nelle triangolazioni di armi e droga a favore dei Contras nicaraguensi.

A Puerto Boyacà, gli israeliani erano stati ricevuti dal comandante del battaglione Bárbula. La tenuta dove si svolgevano i corsi di addestramento era meta di ufficiali e sottufficiali, che amavano  gareggiare al tiro al bersaglio con gli israeliani e i loro allievi.

Klein era talmente sicuro di sé che permise all’ex tenente Oscar Echandía, coordinatore dei corsi per conto di Acdegam, di girare un video promozionale per la Spearhead in Colombia. Ovviamente la telecamera evitò di riprendere i patrocinatori della scuola di sicariato, soffermandosi su Klein e Shuali, e sugli allievi, tra i quali spiccava un gigante nero, alto quasi due metri.

Pablo Escobar non fece mancare la sua quota per finanziare l’esercito paramilitare in formazione, ma alle esibizioni dei mercenari preferì sempre le partite di pallone. Nel novembre ’87, giocò in un torneo organizzato nella tenuta Nápoles contro gli assi del Nacional di Medellín. Alla fine della partita, il funambolico portiere René Higuita consegnò una medaglia a don Pablo, padrone neppure troppo segreto della squadra che due anni dopo avrebbe conteso la Coppa Intercontinentale al Milan di Van Basten e Baresi. Rodríguez Gacha cercò spesso di convincerlo dell’utilità del progetto anticomunista di Puerto Boyacà: “Se l’aiutiamo a far fuori i suoi nemici, lo Stato ci lascerà fare tranquillamente i nostri affari”. Don Pablo, che aveva conosciuto da vicino il mondo della politica, ne dubitava. Successivamente, sostenne di non avere mai condiviso le idee del Messicano e di avere  cercato di convincerlo a bloccare lo sterminio della gente di sinistra.

Escobar era impegnato soprattutto nella guerra contro l’estradizione – nella quale si trovava alleato della sinistra in lotta “contro l’imperialismo yankee”- portata avanti a suon di omicidi e sequestri. Nel gennaio 1988, il rapimento di Andrés Pastrana, futuro presidente della repubblica, segnò un punto a favore del boss: infatti, se qualche settimana prima il ministro della Giustizia aveva emesso cinque ordini di cattura con l’autorizzazione all’immediata estradizione negli USA, ed Escobar era il primo della lista , pochi giorni dopo il  sequestro d Pastrana il Consiglio di Stato li aveva sospesi.

Ma don Pablo era impegnato anche nella guerra, ancora più sanguinosa, contro i nemici di Cali, che disponevano come lui di bande di sicari e di istruttori stranieri. Grazie alla mediazione dei servizi  colombiani, i Rodríguez Orejuela contrattarono un gruppo di ex agenti delle Special Air Service (Sas), capeggiato dai colonnelli Peter Mc Aleese e Dave Tomkins, che nel giugno 1989 utilizzarono un elicottero della polizia colombiana per uno sfortunato blitz, progettato con l’aiuto della Cia, destinato a sorprendere e uccidere i boss di Medellin(5). Quattro mesi prima, il 13 febbraio, un gruppo di poliziotti al servizio del Cartello di Cali osarono far saltare un’autobomba davanti all’edifico Monaco, nel quartiere bene di Poblado a Medellín, dove viveva la sua famiglia. L’esplosione, oltre a polverizzare due vigilanti, aveva leso permanentemente l’udito della figlioletta. Fu un affronto intollerabile per il boss che era solito minacciare di morte chiunque si azzardasse “a torcere un capello” ai suoi familiari. Nel settembre 1984, ad esempio, aveva scoperto e sterminato l’intera banda di balordi che aveva sequestrato suo padre Abel. Nell’agosto 1989, avrebbe rivendicato l’uccisione di un colonnello di polizia, colpevole di avere impedito, per qualche ora, a sua moglie María Victoria, in stato di fermo, di dare il biberon alla piccola Juana Manuela.

L’espansione del progetto paramilitare rimase il più delle volte a carico del solo Rodríguez Gacha e dei suoi alleati anticomunisti, civili e militari.

Insieme decisero di  spedire il gruppo di sicari addestrati da Klein  in Urabá, la regione confinante con Panama, utilizzata per i traffici illegali di droga e di armi, ricchissima di minerali preziosi e adatta, per la sua natura rigogliosa, all’agricoltura intensiva. In quella zona si era insediata, agli inizi degli anni sessanta, la United Fruit per sviluppare la coltivazione delle banane, divenute il terzo prodotto d’esportazione della Colombia, dopo il caffè e il petrolio.

Nel 1988, le piantagioni di Urabá, che commercializzavano la frutta con i marchi Del Monte, Dole e Chiquita, occupavano quasi 30 mila braccianti, costretti a lavorare fino a settanta ore settimanali, senza assicurazione e assistenza sanitaria, e a vivere con le loro famiglie in tuguri privi di luce, acqua potabile e fogne. Le condizioni disumane, che provocavano la morte per tubercolosi di un lavoratore su quattro, avevano favorito l’espansione dei sindacati, nonostante l’opposizione violenta dei latifondisti, propensi a risolvere i conflitti di lavoro più a pistolettate che con le trattative.

L’accaparramento delle terre realizzato dalle compagnie bananiere, ma anche da molti politici, generali e narcotrafficanti, aveva generato l’espulsione di decine di migliaia di contadini e favorito l’espansione delle Farc e dell’Ejército Popular de Liberación, (Epl). Il circolo vizioso non faceva che alimentare la violenza. La guerriglia  imponeva il pagamento di forti tangenti ai latifondisti della zona, pena il loro sequestro e, eventualmente, la morte. Questi, a loro volta,  formavano milizie private o pagavano, per la loro protezione, gli ufficiali dei battaglioni dell’esercito operanti in zona.

A essere ammazzati, uno dopo l’altro, erano soprattutto i sindacalisti. “Quando i padroni individuano un lavoratore preparato e in grado di sostenere una discussione, questo può considerarsi un uomo morto” dissero alcuni braccianti all’inviata del “El Espectador”. Negli ultimi sei mesi del 1987, nella regione, erano stati uccisi 39 dirigenti sindacali. Ogni sciopero era preceduto o seguito da decine di funerali.

L’esercito e la polizia, che si dimostravano incapaci di arrestare un solo killer,  parteggiavano apertamente per i latifondisti. “Qui in Urabá esistono movimenti sindacali con  braccio armato” affermò il comandante della brigata che operava nella regione. A cadere sotto i colpi dei sicari erano anche i militanti dell’Unión Patriótica, il movimento di sinistra che nelle ultime elezioni aveva conquistato i principali comuni come Turbo e Apartadò, e persino gli esponenti di Nuevo Liberalismo, l’ala progressista del Partito Liberale.

Nello stesso giorno in cui a Puerto Boyacà si concludeva il primo corso di sicariato, alcuni plotoni del battaglione Voltígeros entrarono in una  baraccopoli dei lavoratori bananieri e arrestarono quattro braccianti – tra i quali una sedicenne incinta che, dopo alcuni giorni di tortura, accusò un gruppo di conoscenti di militare nella guerriglia. Nelle notti successive la ragazza venne portata su un fuoristrada coi vetri opachi per riconoscere presunti guerriglieri nei villaggi Honduras e La Negra. I quattro braccianti vennero consegnati al giudice due settimane dopo l’arresto, una pratica resa possibile dallo Statuto Antiterrorista, promulgato per  combattere i narcos e applicato, quasi esclusivamente, contro gli oppositori politici e sociali. Successivamente si scoprì che, nel verbale degli interrogatori, veniva indicato nella veste di avvocato difensore un ufficiale che aveva partecipato attivamente alle torture dei prigionieri.

A dirigere l’operazione fu il maggiore Luis Felipe Becerra, che qualche giorno dopo avrebbe pagato, con la sua carta di credito il pernottamento, all’hotel Intercontinental di Medellín, del gruppo di sicari di Puerto Boyacà diretti in Urabá . La complessa macchina di morte venne messa in moto nella notte di plenilunio del 4 marzo. Era appena scoccata l’una quando gli abitanti del miserabile accampamento della tenuta Honduras vennero svegliati dall’arrivo di alcuni fuoristrada e dalle urla di un gruppo di uomini armati. ” Aprite tutte le porte!” fu il primo ordine comprensibile. Venne subito circondata la baracca dei celibi, che furono trascinati fuori e fatti stendere sul selciato nel cortile centrale. Tre di loro riuscirono miracolosamente a salvarsi, nascondendosi sotto il tetto. La gente terrorizzata distinse, all’entrata dell’accampamento, l’ombra di due camion carichi di soldati immobili. Nessuno si illuse di ricevere il loro aiuto.

Il capo dei miliziani era un gigante nero, con un cappello rosso. Alcuni di essi, per creare confusione, gridava “Morte all’Epl! Viva le Farc!”. Altri scrivevano sulle baracche con una bomboletta il contrario, “Morte alle Farc! Viva l’Epl!”.

In pochi secondi vennero radunati 17  braccianti, tutti iscritti al sindacato. Chiusi nelle loro case, i familiari non poterono fare altro che piangere e pregare. Prima si udirono le urla di alcuni giovani ai quali venivano strappate le unghie. Poi delle grida concitate, una raffica isolata e, infine, una scarica interminabile di colpi. “Caporale, qui ce n’è uno vivo!” si udì appena ritornò il silenzio. L’ultima raffica finì Pedro, bracciante di 25 anni. Il primo a morire era stato invece Alirio che, approfittando di un momento di disattenzione del commando, aveva cercato di fuggire, ma era stato raggiunto e ucciso in mezzo al campetto dove i lavoratori erano soliti giocare a pallone la domenica sera.

Prima di andarsene, scortati dai due camion militari, gli assassini bruciarono il chiosco sotto il quale si tenevano le riunioni sindacali e distrussero, a colpi di mitra,  il camioncino della comunità utilizzato per il trasporto scolastico. Il loro raid non era però finito. Nella vicina tenuta La Negra massacrarono davanti ai loro familiari altri tre braccianti. Quando il cielo cominciò a schiarirsi, nella tenuta Honduras, le donne piangevano vicino ai corpi quasi decapitati dei loro uomini, colpiti in faccia dalle pallottole esplosive. Altre vagavano come automi. Insieme con gli avvoltoi, arrivarono alcuni camion carichi di militari del battaglione Voltígeros. I sopravvissuti riconobbero, tra di loro, il gigante negro che aveva diretto poche ore prima il commando omicida. I soldati sembravano preoccupati soltanto di raccogliere i bossoli rimasti sul terreno, in mezzo alle pozze di sangue coagulato e ai frammenti di masse celebrali. Soltanto un ufficiale fece qualche domanda., ma nessuno gli rispose. I sopravvissuti protestarono solo quando i militari caricarono su un camion i cadaveri e se ne andarono, senza aspettare l’arrivo delle autorità giudiziarie. Subito dopo l’intera comunità si mise in marcia verso Apartadò, dove trovò rifugio nella parrocchia della Divina Eucarestía.

Nello stesso pomeriggi del 4 marzo, otto uomini del movimento di sinistra A Luchar, che stavano abbandonando la regione, vennero fatti scendere dal bus diretto a Medellín da un gruppo di uomini incappucciati. I loro corpi torturati furono ritrovati due giorni dopo in un bosco vicino. Nello stesso giorno, 22 mila lavoratori bananieri iniziarono uno sciopero a tempo indeterminato per chiedere la destituzione del generale Sanmiguel Buenaventura e la nomina di una commissione presidenziale che indagasse sui massacri. Il governo centrale elargì esecrazioni e promesse di giustizia. Per far luce su quelli che chiamò “genocidi perpetrati da gruppi antisociali”, il governo scelse trenta dei “migliori agenti” del Departamento Administrativo de Seguridad (Das), l’unico servizio segreto alle dipendenze dirette  del presidente della repubblica. Venne decretato lo stato d’assedio in Urabá e fu nominato governatore militare della regione un maggiore che qualche anno prima era stato indicato dalla Procura generale, un organismo di controllo sui funzionari statali, come un fondatore dei primi gruppi paramilitari. Nelle strade di Turbo e Apartadò si sussurrava che “la medicina è peggiore della malattia”.

La mattanza non era però terminata. Il 3 aprile, vennero uccisi 28 contadini del villaggio La Mejor Esquina nel vicino comune di Buenavista, sorpresi durante una festa da ballo. Otto giorni dopo toccò a 26 contadini di Punta Coquitos. Anche in quelle occasioni a leggere la lista dei condannati a morte fu un gigante di colore. Fu incaricata delle indagini sui massacri la giovane giudice, Marta Lucía González. Le testimonianze dei sopravvissuti, le contraddizioni durante gli interrogatori dei militari e le confessioni dei primi pentiti la convinsero della responsabilità di vari ufficiali, tra i quali alcuni comandanti di battaglione e di brigata.

Più procedevano le sue indagini più aumentava il nervosismo nell’esercito. Nell’agosto successivo, il Procuratore generale della nazione, Horacio Serpa, sostenne in una lettera al presidente Virgilio Barco che i massacri “ non sono errori, atti di vendetta o azioni irrazionali di individui dementi che uniscono le loro forze per sacrificare colombiani qui e là. Tutti questi atti hanno il carattere di crimini politici, commessi per castigare coloro che appartengono a certi partiti o aderiscono a certe ideologie, per intimidire intere comunità, per mantenere un certo statu quo economico”. La risposta del governo non si fece attendere. Il ministro della Difesa polemizzò con i settori “smaniosi che vi siano militari compromessi nei massacri”. Per tranquillizzare l’esercito, il presidente Barco assicurò che avrebbe aumentato l’organico e i finanziamenti alle Forze Armate. Il ministro César Gaviria, che qualche mese prima aveva denunciato la presenza nel paese di 128 gruppi paramilitari, dichiarò in televisione che eventuali azioni illegali di militari in servizio non potevano che essere state realizzate “a livello personale” e assicurò che la violenza nel paese fosse da imputare all’accordo tra i narcotrafficanti e i terroristi.

Nascosto tranquillamente in uno dei suoi innumerevoli rifugi segreti, e protetto da un cordone di sicurezza di centinaia di guerrieri pronti al sacrificio della vita, don Pablo non si perdeva un solo noticiero. Quando ascoltò il discorso di César Gaviria, che un paio d’anni dopo sarebbe diventato presidente della repubblica, intuì che la strategia anticomunista del suo socio, don Gonzalo, avrebbe portato il cartello di Medellín in un vicolo cieco. A fare, cioè, da capro espiatorio. Il boss ne fu ancora più certo quando lesse i brani dei primi rapporti “strettamente confidenziali” del Das sui massacri realizzati in Urabá, fatti filtrare sulla stampa colombiana.

Mentre la giudice González  chiamava a testimoniare ufficiali di grado sempre più alto, il Das spostava l’attenzione sugli altri soggetti dell’alleanza paramilitare: alcuni latifondisti di Acdegam e i narcos di Medellín. Alla fine di aprile, il servizio segreto diretto dal generale Miguel Maza Márquez, lontano parente di Gabriel García Márquez, fornì alla stampa un rapporto che attribuiva i massacri a gruppi di giustizieri, chiamati Los Magníficos o Amor por Colombia, al servizio dei proprietari delle bananeras, “stanchi di subire attentati e sequestri da parte di guerriglieri infiltrati nei sindacati”. Il Das occultava qualunque responsabilità del personale militare come mandante e complice delle stragi.

A Puerto Boyacà, intanto, tutto procedeva tranquillamente. Nel maggio 1988, Yair Klein iniziò il secondo corso di sicariato, che fu interrotto solo perché molti allievi si presentavano ubriachi alle esercitazioni. Il terzo venne invece trasferito in una fattoria di Rodríguez Gacha, nella regione meridionale del Putumayo, a causa di un rastrellamento in zona della polizia antinarcotici.

In quell’occasione, Klein cominciò a rendersi conto della complessità del puzzle colombiano. “Mi sembrò curioso che, mentre l’esercito appoggiava l’Acdegam, la Polizia attaccasse un suo accampamento” racconterà qualche anno dopo l’ex colonnello israeliano .

Dopo anni durante i quali ogni denuncia del genocidio in atto nel Magdalena Medio era stata liquidata come “frutto della propaganda comunista”, la giustizia cominciava ad agire. Ma svolgere indagini nel Magdalena Medio risultava pericoloso anche per i funzionari del Ministero di Giustizia. La giudice González si recò inutilmente un paio di volte a Puerto Boyacà per interrogare i militari indagati. L’esercito e la polizia locale fecero a gara per boicottarla, costringendola ad attese snervanti, cambiando improvvisamente i programmi fino a dichiarare di non poterle garantire la sua incolumità. Non veniva risparmiato niente per farla desistere dal suo intento. Sconosciuti le telefonavano nel cuore della notte per informarsi sulla salute dei suoi familiari. Altri provvedevano a sistemare, sotto le lenzuola degli alberghi dove pernottava durante le missioni, nugoli di scarafaggi o topi morti.

La González non si fece intimorire. Il 25 giugno, firmò alcuni mandati di cattura contro narcos come Rodríguez Gacha e Pablo Escobar e il boss della Sierra Nevada, Hernán Giraldo, i dirigenti di Acdegam, il sindaco di Puerto Boyacà, e, per la prima volta, contro alcuni militari in servizio: un tenente e un caporale. Secondo la González i due “approvarono,  facilitarono e permisero  il genocidio del 4 marzo”. Il 31 agosto, la  González aggiunse alla lista anche il maggiore Luis Felipe Becerra. Fu la sua ultima azione giudiziaria. Un attentato fallito nel centro di Bogotà la convinse ad accettare un incarico diplomatico in un’ambasciata in un paese che venne mantenuto segreto.

Prima di lei erano già stati eliminati cinque contadini dell’Urabá che avevano osato testimoniare sui massacri. Qualche mese dopo, in pieno centro di Bogotà, due sicari in moto uccisero, nella classica “vendetta trasversale”, suo padre Alvaro, ex governatore della regione di Boyacà.

Uguale sorte toccò alla giudice che la sostituì. Dopo avere ricevuto varie minacce di morte, María Helena Díaz  fu ammazzata insieme con due poliziotti di scorta, il 28 luglio 1989, da un gruppo di uomini incappucciati. Tutti questi omicidi vennero  attribuiti alla “mafia della droga”.  Pochi giorni prima di essere ammazzata, la Díaz aveva confermato i mandati di cattura emessi dalla sua collega, con una scelta coraggiosa quanto inutile, visto che nessuna autorità  si prese mai la briga di eseguirli. Mentre Escobar, gli altri narcos e i paramilitari erano protetti dalle loro milizie private, i militari coinvolti erano protetti dal vertice delle Forze Armate.

Dopo essere stato sospeso alla fine ’88, il maggiore Becerra venne reintegrato e promosso tenente colonnello. Un anno dopo fu inviato a un corso militare di sei mesi a Fort Bragg e, successivamente, trasferito alla direzione dell’Ufficio Pubbliche Relazioni dell’esercito, incarico che lo portò a frequentare i ricevimenti della stampa estera a Bogotà.

Il sindaco di Puerto Boyacà rimase tranquillamente al suo posto e organizzò un affollato “Foro per la difesa dell’Onore e la Dignità del Magdalena Medio”, al quale presero parte rappresentanti del governo, deputati, alti ufficiali in servizio e in congedo e il presidente della potente associazione degli allevatori di bestiame della Colombia (Fedegan) che, rivolgendosi ai dirigenti dell’ Acdegam, affermò: “Non siete soli. Siamo i vostri fratelli, i vostri amici e i vostri ammiratori”. Soltanto nel febbraio successivo, il governo sospese il sindaco, che venne arrestato, ma solo per “porto illegale d’armi”, e liberato tre ore dopo da un commando armato.

Dopo il forzato esilio della González e il sacrifico della Díaz, la magistratura decise di evitare altre morti inutili e revocò tutti i mandati di cattura tranne quello emesso contro un membro del gruppo paramilitare Los Magníficos. Dopo un anno e mezzo e quasi novanta morti – tra braccianti, sindacalisti, giudici, uomini di scorta, testimoni- per i massacri di Urabá era finito in galera solo lui. La macchina di morte subì però un incidente imprevisto. Nel giugno 1989, il “Noticiero Nacional” trasmise il video promozionale della Spearhead, girato nella tenuta El Cinquenta. Qualche giorno prima ne aveva consegnato una copia a un redattore dell’emittente l’ex capo militare dell’Acdegam, Oscar Echandía, desideroso di rendere più convincente la sua dissociazione dal castello narco-paramilitare, che riteneva si stesse sgretolando.

Per i colombiani fu un trauma vedere gli allievi sicari sparare all’impazzata  e lanciare granate.

Quando il video venne proposto in tutto il mondo dalla catena nordamericana Cbs, lo Stato colombiano fu preso dal panico. Il ministro della Difesa, generale Oscar Botero, e il direttore del Das, Maza Márquez, iniziarono un balletto di bugie e mezze ammissioni.  Si passò dall’iniziale “non abbiamo alcuna informazione al riguardo” fino alla conferma che Klein era stato ricevuto al suo arrivo a Bogotà da alcuni ufficiali dell’Esercito, che comunque, secondo quanto affermò Botero al Senato, “non avevano agito in nome del Governo e del Ministero della Difesa”. Il video permise anche di far luce sui massacri di Urabà. Alcuni sopravvissuti riconobbero nel disertore delle Farc, Luis Alfonso de Jesús Baquero, detto El Negro Vladimir, il gigante che aveva guidato il commando assassino.

Viste le proporzioni dello scandalo, lo Stato colombiano sentì il bisogno di immolare qualche suo uomo. La scelta cadde sul tenente colonnello Luis Bohórquez, che pagò a caro prezzo l’accoglienza riservata, mesi prima, a Yair Klein. Venne destituito e definito “nemico della pace” dal ministro della Difesa. L’ufficiale non gradì di essere spacciato per l’eccezione che confermava la regola, o la favola, dell’esercito “democratico e rispettoso dei diritti umani”. E si difese con ogni mezzo. In una conferenza stampa, successiva alla sua destituzione, affermò: “Sono onorato di questa divisa e non permetto che qualcuno me la macchi… Sono un fanatico antisovversivo”. Poi, in una lettera aperta pubblicata senza commento dai giornali colombiani, ricordò che “i gruppi di autodifesa rispondono a una politica del governo” e che vari generali fossero stati a conoscenza della situazione nel Magdalena Medio: “Nessuno di loro mi ha mai telefonato per dirmi che stavo sbagliando” (8). In quella stessa lettera, Bohórquez sostenne che Yair Klein era giunto a Puerto Boyacà per  “compiere una missione legale”. L’ufficiale fece anche circolare una fotografia che lo ritraeva, nell’agosto 1988, a Puerto Boyacà in compagnia dell’ambasciatore statunitense Charles Guilepsie, assiduo frequentatore della “capitale antisovversiva” della Colombia.

Appena l’opinione pubblica si distrasse, Bohórquez venne reintegrato e assegnato alla Direzione dei Servizi di sicurezza dell’esercito. Nell’estate 1991, minacciò nuove rivelazioni sui vincoli tra il gruppo di Klein e il vertice delle Forze Armate. Forse tirò troppo la corda. Il 24 luglio, venne ucciso da due sicari in moto nel centro di Bogotà. Quella volta, i giornali non diedero la colpa a Escobar. Anche perché don Pablo aveva altro a cui pensare. Da circa un mese era rinchiuso nel carcere “a cinque stelle” di La Catedral, dove trascorse un altro folle segmento della sua avventurosa vita criminale.

11° capitolo

I cavalieri della fiamma ossidrica

Sette secondi e mezzo. Tanto trascorse dall’esplosione delle cariche poste vicino ai portelloni al momento in cui le teste di cuoio spararono sui terroristi palestinesi, che avevano sequestrato novanta passeggeri e dieci membri dell’equipaggio di un Boeing della Sabena. L’operazione Isotopo sulla pista dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, scattò alle 16 e 22 dell’8 maggio 1972. Quel blitz, che provocò la morte di due uomini e il ferimento di due donne del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) di George Habbash, fu, nel suo genere, un esempio micidiale di efficienza militare. Nel commando israeliano erano presenti, travestiti con le tute bianche dei tecnici aeroportuali, due futuri primi ministri, Ehud Barak e Benyamin Netanyahu. E un futuro ricercato internazionale: Yair Klein.

Quando entrò nell’esercito, Klein era quasi un adolescente. Ne uscì nel 1978, a solo trentasei anni, per gestire prima una pompa di benzina, poi un ristorante sulle rive del Giordano. Quando, nel 1982, Israele invase il Libano, Klein non seppe resistere al richiamo delle armi e accettò il comando di una brigata di fanteria. Un anno dopo, al suo secondo congedo, tentò di conciliare la vocazione di guerriero con gli affari, fondando, come stavano facendo decine di altri ufficiali, una propria compagnia di sicurezza, che chiamò significativamente Hod Hahanit in  ebraico, e Spearhead in inglese, e cioè “punta di lancia”. Il suo primo affare fu la vendita di armi ed equipaggiamento, per due milioni di dollari, ai falangisti libanesi, con i quali aveva collaborato nell’assedio di Beirut e che erano stati gli esecutori materiali dei massacri di Sabra e Chatila. Negli anni successivi, allargò i suoi commerci a decine di altri clienti internazionali.

Era grazie all’intermediazione di compagnie private come quella di Klein che l’industria bellica israeliana faceva affari d’oro, sfruttando anche i mercati lasciati dagli Stati Uniti, soprattutto durante la presidenza Carter, per motivi diplomatici. Israele non si fece mai il minimo scrupolo ad armare e collaborare con le dittature più sanguinarie e razziste del mondo. Tutte le società apparivano nell’Annuario promozionale del ministero della Difesa. La Spearhead, che aveva ricevuto personalmente dal ministro Yitzhak Rabin il permesso di “esportare tecnologia militare”, occupò un’intera pagina nell’edizione 1988, anno trascorso da Klein e i suoi a svezzare i sicari paramilitari di Puerto Boyacà. Anche i traffici più oscuri erano basati però su patti chiarissimi: se qualcosa andava male, la colpa ricadeva sui privati. E fu così anche per i servizi resi da Klein in Colombia. Il governo di Tel Aviv sapeva perfettamente che cosa stesse combinando l’ex colonnello nel Magdalena Medio. “Prima di lasciare Israele ho comunicato che avrei addestrato degli agricoltori. Mi dissero solo di avere cura di me stesso” affermò Klein. Nell’aprile 1989, fu, per esempio, il capo della sicurezza dell’ambasciata israeliana a Bogotà a invitarlo ad abbandonare precipitosamente il paese, appena seppe che il Das aveva scoperto l’esistenza dei campi di addestramento dei paras.

Ma il governo israeliano risultò implicato in una storia ancora più losca: la vendita ai narcoparamilitari colombiani di una partita di 400 fucili Galil, 100 mitragliette Uzi e 250 mila munizioni oltre a esplosivi, strumenti a raggi infrarossi e apparecchiature mediche. Lo scandalo scoppiò nel dicembre 1989, dopo l’uccisione di Rodríguez Gacha, quando parte dell’arsenale venne scoperto nella tenuta del sindaco di Montería. Non ci volle molto a capire come fosse arrivato in Colombia: dopo essere stati imbarcati nel porto israeliano di Haifa su una nave affittata dal ministero della Difesa israeliano, i container con la scritta “parti di macchinari” erano stati trasferiti ad Antigua, e da qui trasportati sulla costa colombiana, dal Seapoint, un battello di Jorge Enrique Velásquez, detto El Navegante. Fu in quell’occasione, che quest’ultimo, da tempo al soldo del Cartello di Cali, conquistò la fiducia di Rodríguez Gacha, che avrebbe tradito, qualche mese dopo, facendo  scattare l’operazione che portò alla sua morte.

“Conosco della gente in Israele. Lavoro col governo di quel paese e questo ci facilita le cose. Voglio far arrivare un container pieno di armi” aveva detto Rodríguez Gacha al Navegante. Ad Antigua invece, era stato Klein a comprare il beneplacito all’operazione dal figlio del primo ministro, Vere Bird jr. In Colombia avevano collaborato i capi paras amici del Messicano: Luis Meneses e Fidel Castaño, che covava il sogno di armare un piccolo esercito per attaccare il santuario delle Farc e controllava, già allora, i politici del dipartimento di Córdoba come, appunto, il sindaco di Montería.

Quando l’arsenale fu scoperto, tutti cercarono affannosamente di defilarsi. Il governo israeliano sostenne di averlo spedito al ministero della Sicurezza nazionale di Antigua, intenzionato ad ammodernare l’esercito locale. Le autorità dell’isola caraibica negarono di avere avanzato una simile richiesta, specificando che non esisteva nessun ministero chiamato in quel modo e, soprattutto, che le sue Forze Armate nazionali contavano solo su novanta soldati. Klein non negò di avere partecipato alla transazione, ma sostenne che le armi sarebbero dovute finire a Panama, agli oppositori del generale Manuel Noriega che, guarda caso, proprio a quell’epoca era diventato improvvisamente un mostro per gli Usa.

Il governo colombiano, che avrebbe potuto fare luce sul castello di menzogne, si limitò a proclamarsi vittima di un complotto e scelse di dare la colpa di tutto al defunto Rodríguez Gacha e, tra i vivi, al solo Yair Klein. Il mercenario non se la prese più di tanto: erano gli incerti del mestiere. Se ne stette tranquillamente nella sua fattoria alla periferia di Tel Aviv, sopportando il fastidio di un processo “per avere progettato di dirigere una scuola di sovversione” e “avere esportato materiali e tecnologia della Difesa”, senza i necessari permessi, che terminò con una condanna a un anno di carcere, annullata poi in appello. Visto che il ministero della Difesa non sospese neppure per un giorno la licenza alla Spearhead, Klein continuò a fare affari sulla scena internazionale, mentre promuoveva un’azienda, con sede a Gerico, che vendeva bottigliette a forma di croce, contenenti acqua del Giordano. Quando capì che anche quest’idea balzana non funzionava, decise di ritornare alla sua antica passione per la guerra: “Non passerò il resto della mia vita in Israele ad annoiarmi in un ufficio con aria condizionata “.

Evitò la Colombia, che si era dimostrata un labirinto indecifrabile e pericoloso anche per un tipo come lui. E scelse l’Africa, che da anni si era rivelata una manna per i mercenari pronti a tutto. Nel gennaio 1999, Klein fu arrestato in Sierra Leone per avere venduto armi, provenienti dall’Ucraina e dalla Libia, ai ribelli del Revolutionary United Front (Ruf). Qualche anno prima era arrivato nel paese africano per addestrare, invece, le truppe governative, ricevendo dal presidente Ahmad Tejan Kabbah la concessione per lo sfruttamento di una miniera di diamanti. Poi, probabilmente, aveva preferito passare al nemico. Il governo israeliano riuscì a ottenere la libertà del suo irrequieto cittadino, che stava varcando la soglia dei sessant’anni, ma non dava proprio l’impressione di volere andare in pensione. ” Ho del coraggio da vendere: entro dove gli altri non riescono a entrare e faccio cose che gli altri non fanno” affermò Klein, poco dopo essere stato liberato, dopo un anno di carcere e un tentativo, fallito, di evasione.

Sembrava spaventarlo solo il fantasma della Colombia dove, nel marzo 2002, un tribunale di Manizales l’aveva condannato a dieci anni e otto mesi di carcere per l’addestramento impartito a gruppi terroristi alla fine degli anni ottanta: ” Se sto zitto non mi succede niente. Se apro la bocca finirò come Amiran Nir e l’ammaestratrice di delfini, impiccati con il filo spinato nel centro di Tel Aviv. E non è stato un suicidio”.  Nir era stato l’intermediario di Shimon Peres nel cosiddetto affare Irangate, che portò alla liberazione degli statunitensi tenuti in ostaggio dai militanti sciiti a Beirut, alla vendita di armi all’Iran  e al successivo finanziamento clandestino ai contras antisandinisti in Nicaragua. “Il giorno che decidessi, se necessario, di parlare, dovranno rimangiarsi le parole tutti coloro che mi hanno accusato di avere addestrato i killer del cartello della droga di Medellín” disse l’ex colonnello dei Reparti speciali in una lunga intervista al quotidiano israeliano “Ma’ariv”, nella quale sostenne di essere andato in Colombia su invito degli Usa: “Tutto quello che non possono fare gli Stati Uniti, perché non possono intervenire negli affari dei governi stranieri, lo fanno ugualmente, ma attraverso altri”.

Yair Klein rivelò l’assioma di tutti i mercenari…..


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